Paolo Mieli: differenze tra le versioni

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*{{NDR|Su [[Carlo Silvestri]]}} Tornato a Milano nel 1932, è una persona diversa. Scrive a Mussolini lunghe lettere sull'interpretazione di ciò che è accaduto nei primi anni Venti, ma il [[Duce]] non risponde. Ai tempi della guerra d'Etiopia scrive ancora, stavolta ai governi inglese e francese per spiegare le ragioni dell'Italia. Anche qui nessuno lo prende in considerazione. Chiede a questo punto la tessera del Partito nazionale fascista. Gli viene rifiutata. Quando l'Italia nel 1940 entra in guerra, viene internato a Chieti. Il medico personale di Mussolini, l'ex socialista Luigi Veratti, riesce a farlo liberare e lui scrive al dittatore un messaggio di ringraziamento untuoso a tal punto da far annotare al capo della segreteria politica del Duce: «È un buffoncello».<ref name=Silv/>
*E arriviamo al 1943: la seduta del Gran consiglio del 25 luglio che porta alla caduta del fascismo; l'armistizio dell'8 settembre; la divisione dell'Italia in due con la nascita a Nord della repubblica di Salò. In novembre, a Milano, [[Carlo Silvestri|Silvestri]] viene arrestato a seguito di un attentato all'ufficio turistico tedesco. Stavolta è Mussolini in persona a intercedere per farlo rimettere in libertà. Lui lo ringrazia con lettere fin troppo affettuose in cui addirittura lo chiama «papà» (nonostante abbia appena una decina di anni meno di lui). Finalmente Mussolini lo riceve e nei primi colloqui tornano a parlare dell'uccisione di Matteotti. Il Duce lo convince che, all'epoca, era in procinto di «aprire ai socialisti» e che la «destra», per ostacolare questo disegno, gli avrebbe gettato tra i piedi quell'ingombrante cadavere. Silvestri sposa in pieno questa inverosimile versione dei fatti e a favore della tesi dell'estraneità di Mussolini all'uccisione del parlamentare socialista deporrà al processo del 1947 (come spiega il libro di Mauro Canali ''Il delitto Matteotti'', edito dal Mulino).<ref name=Silv/>
*Fece scalpore la circostanza che, a ridosso della breccia di Porta Pia, una delle prime decisioni del potere politico, dopo che Roma era stata «liberata dal giogo pontificio», fu quella di rimettere in libertà [[Antonio Gasbarrone]], accreditando in quel modo la leggenda che quel brigante fosse stato recluso in quanto nemico di Papi e di governi reazionari. All'epoca l'ex bandito era un arzillo settantasettenne e, dopo quarantacinque anni trascorsi in prigione, non era più in grado di rimettere in piedi la sua banda né ddi riprendere attività delittuose.<ref name= Gasbarrone>Da ''Il fuorilegge acclamato <small>Dopo Porta Pia il brigante Gasbarrone divenne un mito perché ostile al Papa</small>'', ''Corriere della Sera'', 16 febbraio 2021.</ref>
*{{NDR|Sul brigante [[Antonio Gasbarrone]]}} Lui, già celebre per un libro agiografico che gli era stato dedicato in Francia, raccontava storie sempre più rocambolesche, in gran parte inventate. I ragazzi per strada lo acclamavano educati da lui, riferisce Pesci, a ritenere «onorevole» il «mestiere di brigante», visto come colui che aveva avuto il coraggio di battersi contro i poteri costituiti. Quando il governo si accorse del passo falso e decise di mandarlo a vivere il più lontano possibile da Roma – nella Pia casa di Abbiategrasso (dove sarebbe morto nel 1882 all'età di ottantanove anni) – il danno era fatto. I primi anni di Roma capitale furono dunque vissuti all'insegna del mito di Gasbarrone. Ciò che non giovò alla fama della capitale.<ref name= Gasbarrone/>
*Si chiamava [[Antonio Gasbarrone]] (o Gasparone), era nato ai confini tra Lazio e Campania e aveva combattuto contro il Papa, contro i Borbone, contro Napoleone, contro Murat, contro tutti insomma. Poco prima dell'arrivo di Stendhal a Civitavecchia, era stato arrestato grazie ad un saltafosso del vicario di Sezze, don Pietro Pellegrini, che lo indusse a consegnarsi prospettandogli un'immediata amnistia.<ref name= Gasbarrone/>