Emil Cioran: differenze tra le versioni

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==''La tentazione di esistere''==
*Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all'esacerbarsi del nostro squilibrio. (1997, p. 11)
*Non c'è opera che non si ritorca contro l'autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l'avvenimento l'uomo d'azione. Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina; l'unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e doni per potere, sgombro della sua qualità di uomo, sprofondare nell'essere. Se aspiro a una carriera metafisica, a nessun costo posso conservare la mia identità: devo liquidarne il minimo residuo che mi rimanga; e se, al contrario, mi avventuro in un ruolo storico, il compito che mi spetta sarà quello di esasperare le mie facoltà fino a esplodere con esse. Si perisce sempre a causa dell'io che si assume: portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare. (1997, pp. 11-12)
*Maestri nell'arte del pensare contro se stessi, Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij ci hanno insegnato a puntare sui nostri pericoli, ad ampliare la sfera dei nostri mali, ad acquistare esistenza separandoci dal nostro essere. (1997, p. 13)
*Io mi levo contro il propagarsi della menzogna, contro coloro che fanno sfoggio della loro pretesa «salvezza» e la puntellano con una dottrina che non proviene dal loro intimo. Smascherarli, farli scendere dal piedistallo dove si sono issati, metterli alla gogna, è questo un compito cui nessuno dovrebbe restare indifferente. Perché ad ogni costo va impedito di vivere e morire in pace a coloro che hanno troppo buona coscienza. (1997, p. 15)
*[...] vivere immediatamente l'[[eternità]] significa vivere giorno per giorno. (1997, p. 15)
*Poiché la sfera della coscienza si restringe nell'[[azione]], chi agisce non può pretendere all'universale: l'agire è un aggrapparsi alle proprietà dell'essere a detrimento dell'essere, a una forma di realtà a scapito della realtà. (1997, p. 16)
*Noi [[respirazione|respiriamo]] troppo velocemente per poter cogliere le cose in se stesse o denunciarne la fragilità. (1997, p. 17)
*A quali tentazioni, a quali estremi ci conduce la lucidità! La diserteremo per rifugiarci nell'incoscienza. Chiunque si salva con il sonno, chiunque ha del genio ''mentre dorme'': non c'è differenza tra i sogni di un macellaio e quelli di un poeta. (1997, p. 19)
*Un minimo d'incoscienza è necessaria se ci si vuole mantenere nella storia. Agire è una cosa; sapere di agire è un'altra. Quando la chiaroveggenza investe l'atto e vi si insinua, l'atto si disfa e con esso il pregiudizio, la cui funzione consiste appunto nel subordinare, nell'asservire la coscienza all'atto... Colui che smaschera le proprie finzioni, rinuncia alle proprie energie e quasi a se stesso. Ne accetterà quindi delle altre che lo negheranno, perché queste non saranno scaturite dal suo intimo. Nessun essere che abbia a cuore il proprio equilibrio dovrebbe oltrepassare un certo grado di lucidità e di analisi. Quanto ciò è più vero per una civiltà, la quale vacilla per poco che denunci gli errori che consentirono la sua crescita e il suo splendore, per poco che metta in dubbio le ''sue'' verità. (1997, pp. 34-35)
*Non senza rischio si abusa della propria facoltà di dubitare. Lo scettico, quando non trae più alcun principio attivo dai suoi problemi e interrogativi si avvicina al proprio epilogo, anzi lo cerca, gli corre incontro: qualcun altro tronchi le sue incertezze, qualcun altro lo aiuti a soccombere! (1997, p. 35)
*Non si abdica da un giorno all'altro: è necessaria un'atmosfera di distacco accuratamente predisposta, una leggenda della disfatta. (1997, p. 40)
*Ce l'ho col nostro secolo per averci soggiogati fino al punto di ossessionarci anche quando ce ne distacchiamo.
*«Come si può essere [[Romania|Rumeno]]»?, a questa domanda potevo rispondere soltanto con una incessante mortificazione. Odiando i miei, il mio paese, i suoi contadini fuori del tempo, irretiti dal loro torpore e come sprizzanti ebetudine, arrossivo d'esserne l'erede, li rinnegavo, mi ritraevo dalla loro sub-eternità, dalle loro certezze di larve pietrificate, dalle loro fantasticherie geologiche. (1997, p. 52)
*Per svilupparsi la [[prosa]] richiede un certo rigore, uno stato sociale differenziato e una tradizione: è premeditata, costruita; la [[poesia]] ''sgorga'', è diretta, oppure totalmente artificiale; appannaggio dei trogloditi e dei raffinati, non fiorisce che ai margini della civiltà, la precede oppure la segue. Mentre la prosa esige un genio maturo e una lingua cristallizzata, la poesia è perfettamente compatibile con un genio primitivo e una lingua informe. Creare una letteratura significa creare una prosa. (1997, p. 59)
*Sottrarsi al mondo, quale sforzo di annullamento! Da parte sua, l'[[apolidia|apolide]] vi giunge senza darsi un gran daffare, con il concorso – con l'ostilità – della storia. Niente tormenti né veglie per giungere a spogliarsi di tutto; vi è costretto dagli avvenimenti. In un certo senso, somiglia al malato, che come lui si installa senza merito personale nella metafisica o nella poesia, per forza di cose, grazie ai buoni uffici della malattia. Assoluto a buon mercato? Può darsi, quantunque resti da provare che i risultati acquisiti con sforzo valgono di più di quelli che derivano dal riposo nell'ineluttabile. (1997, pp. 59-60)
*Non esistono esseri meno anonimi. Senza di loro le città sarebbero irrespirabili; essi vi mantengono uno stato febbrile, senza il quale ogni centro urbano diventa provincia: una città morta è una città senza [[Ebrei]]. (pp. 78-79)
*[...] Egli {{ndr|[[Epicuro]]}} fu per il suo tempo quello che lo psicanalista è per il nostro: a suo modo non denunciava anche lui «il disagio della civiltà»? (In tutte le epoche confuse e raffinate, un [[Sigmund Freud|Freud]] tenta di alleggerire le anime). Più che con [[Socrate]], è con Epicuro che la filosofia scivolò verso la terapeutica. Guarire e soprattutto guarirsi, questa era la sua ambizione: benché volesse liberare gli uomini dalla paura della morte e da quella degli dèi, provava egli stesso sia l'una che l'altra. L'atarassia di cui si fregiava non costituiva la sua esperienza ordinaria: la sua «sensibilità» era notoria. Quanto al disprezzo per le scienze, disprezzo che gli è stato in seguito rimproverato, sappiamo come sovente sia proprio dei «cuori feriti». Questo teorico della felicità era un malato: vomitava, a quanto pare, due volte al giorno. In mezzo a quali miserie doveva dibattersi per aver tanto odiato i «turbamenti dell'anima»! Quel poco di serenità che riuscì a conquistare, senza dubbio la riservò ai suoi discepoli, i quali, riconoscenti e ingenui, gli crearono una reputazione da saggio. Siccome le nostre illusioni sono ben più deboli di quelle dei suoi contemporanei, intravediamo agevolmente il rovescio del suo Giardino... (1997, p. 159)
*I Greci nacquero alla filosofia quando gli dèi parvero loro insufficienti; il concetto inizia dove l'[[Olimpo]] finisce. Pensare significa smettere di venerare, significa levarsi contri il mistero e proclamarne il fallimento. (1997, p. 161)
*Più che un dato, la solitudine è una missione: elevarsi ad essa e assumerla significa rinunciare al contributo di quella bassezza che garantisce la riuscita di una qualsiasi impresa, religiosa o di altro genere. Ripercorrete la storia delle idee, dei gesti, degli atteggiamenti: vedrete che l'''avvenire'' fu sempre complice della turba. Non si predica in nome di [[Marco Aurelio]] [...]. (1997, p. 164)
*Lo scetticismo: sorriso che sovrasta le parole... (1997, p. 180)
*Per quanto guardi alle cose con una smorfia di disgusto, il poeta non è mai un vero negatore. Voler rinvigorire le parole, infondere loro una nuova vita, presuppone un fanatismo, una obnubilazione fuori del comune: inventare – poeticamente – significa essere un complice e un appassionato del Verbo, un falso nichilista: ogni demiurgia verbale si sviluppa a spese della lucidità... [...] Che la poesia debba essere accessibile o ermetica, efficace o gratuita, è un problema secondario. Esercizio o rivelazione, che importa? Siamo noi che le domandiamo di liberarci dalla oppressione, dai tormenti del discorso. Se vi riesce, è la poesia a essere ''per un istante'' la nostra salvezza. (1997, pp. 180-181)
*Per alcuni la felicità è una sensazione così insolita che non appena la provano, si allarmano e s'interrogano su questo nuovo stato; nulla di simile nel loro passato: è la prima volta che si avventurano fuori della sicurezza del peggio. (1997, p. 193)
*La vita, lungi dall'essere, come pensava [[Marie François Xavier Bichat|Bichat]], l'insieme delle funzioni che resistono alla morte, è piuttosto l'insieme delle funzioni che ci trascinano ad essa. La nostra sostanza diminuisce a ogni passo; tuttavia tutti i nostri sforzi dovrebbero tendere a fare di questa diminuzione un eccitante, un principio d'efficacia. Coloro che non sanno trarre beneficio dalle loro possibilità di non-essere, restano estranei a se stessi: dei fantocci, degli oggetti provvisti di un io, assopiti in un tempo neutro, né durata né eternità. Esistere significa mettere a profitto la nostra parte d'irrealtà, significa vibrare al contatto del vuoto che è in noi. (1997, pp. 202-203)
*Tutto ciò che mira ad agire sull'uomo – comprese le religioni – è contaminato da un sentimento grossolano della morte. Ed è per cercarne uno più veritiero, più puro, che gli eremiti si rifugiavano in quella negazione della storia che è il deserto, che giustamente paragonavano all'angelo poiché, sostenevano, entrambi ignorano il peccato, la caduta nel tempo. [...] È lì che il solitario si ritira, non tanto per accrescere la sua solitudine e arricchirsi d'assenza, quanto per far salire dentro di sé la nota della morte. E per udire questa nota, dobbiamo collocare in noi un deserto... Se vi riusciamo, degli accordi ci attraversano il sangue, le vene si dilatano, i nostri segreti così come le nostre risorse appaiono alla nostra superficie dove il disgusto e il desiderio, l'orrore e il rapimento si confondono in una festa oscura e luminosa. (1997, pp. 208-209)
*Poiché la [[vitalità]] ci proviene dalle nostre risorse di insensato, non disponiamo, per opporci ai nostri sgomenti e ai nostri dubbi, che delle certezze e della terapeutica del delirio. A furia di sragionare, mutiamoci in sorgente, in origine, in punto iniziale, moltiplichiamo con ogni mezzo i nostri ''momenti cosmogonici''. Esistiamo veramente solo quando irradiamo tempo, quando dei soli sorgono in noi e noi ne dispensiamo i raggi che illuminano gli istanti... (1997, p. 211)
 
==''Lacrime e santi''==