Giuseppe Berto: differenze tra le versioni

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*''Tunisi, 9 aprile 1943''. Sono ricoverato all'ospedale militare di [[Tunisi]], dopo esservi entrato con regolare biglietto fornitomi dal comando del centro reclutamento. [...] L'edificio dell'ospedale, molto bello e moderno, è un'opera del regime: l'ha fatto costruire pochi anni fa il [[Duce]] per gli italiani di Tunisia, i quali ne sono orgogliosissimi. Certamente i francesi non hanno un ospedale così bello. (p. 172)
*[[Kélibia]] è un pittoresco paese che si trova all'estremità della penisola di [[Capo Bon]], nel punto più vicino all'Italia. Col tempo buono si scorge l'isola di Pantelleria, che è già Italia, e commuove. (p. 188)
*La nostra artiglieria, che dispone di pochi pezzi con munizioni razionate, risponde raramente al fuoco inglese. Però, a risollevarci dall'avvilimento, di tanto in tanto interviene la [[Katjuša (lanciarazzi)|Katiuscia. Le Katiuscia sono dei cannoni lanciarazzi che i tedeschi hanno preso ai russi e che, in numero limitatissimo, hanno portato in Africa. Dicono che sparino trentadue razzi alla volta. Quando noi sentiamo il brontolìo dei colpi di partenza, e già passa sopra di noi un nuvolo d'invisibili proiettili sibilanti, ci prende un brivido come se ci trovassimo in presenza di un prodigio spaventoso, e deve passare qualche istante, ci deve arrivare il fragore moltiplicato dei colpi che scoppiano dall'altra parte, prima che lo stupore terribile si trasformi in entusiasmo. (p. 206)
*''Takrouna, 2 maggio 1943''. Oltre agli escrementi e alle mosche, così strettamente collegati fra di loro, oltre ai pidocchi, un'altra cosa è estremamente fastidiosa: l'[[aereo da ricognizione|aereo ricognitore]]. Se ne va sulla nostra testa dalla mattina alla sera, alto e tranquillo, e volteggiando ogni tanto brilla brevemente nel sole. Non è sempre lo stesso, si capisce, ma prima che uno se ne vada un altro sopraggiunge. Se mai per qualche istante potessimo dimenticare la nostra impotenza, quel maledetto aereo sta semre li a rammentarla. (pp. 208-209)
*Andai avanti a tuffi, da un sporgenza del canalone all'altra, con migliaia di schegge che mi sibilavano sopra la testa, sempre aspettandomi la granata che, infilando la fessura nell'[[uadi]], mi avrebbe fatto a pezzi. Invece il colpo mio non arrivava, e io continuavo ad andare avanti, avvicinandomi allo sbocco del canalone, dove mi avrebbero senza dubbio colpito, perché lì non ci sarebbe stato più riparo. (p. 216)