Emil Cioran: differenze tra le versioni

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*[...] Egli {{ndr|[[Epicuro]]}} fu per il suo tempo quello che lo psicanalista è per il nostro: a suo modo non denunciava anche lui «il disagio della civiltà»? (In tutte le epoche confuse e raffinate, un [[Sigmund Freud|Freud]] tenta di alleggerire le anime). Più che con [[Socrate]], è con Epicuro che la filosofia scivolò verso la terapeutica. Guarire e soprattutto guarirsi, questa era la sua ambizione: benché volesse liberare gli uomini dalla paura della morte e da quella degli dèi, provava egli stesso sia l'una che l'altra. L'atarassia di cui si fregiava non costituiva la sua esperienza ordinaria: la sua «sensibilità» era notoria. Quanto al disprezzo per le scienze, disprezzo che gli è stato in seguito rimproverato, sappiamo come sovente sia proprio dei «cuori feriti». Questo teorico della felicità era un malato: vomitava, a quanto pare, due volte al giorno. In mezzo a quali miserie doveva dibattersi per aver tanto odiato i «turbamenti dell'anima»! Quel poco di serenità che riuscì a conquistare, senza dubbio la riservò ai suoi discepoli, i quali, riconoscenti e ingenui, gli crearono una reputazione da saggio. Siccome le nostre illusioni sono ben più deboli di quelle dei suoi contemporanei, intravediamo agevolmente il rovescio del suo Giardino... (1997, p. 159)
*Io mi levo contro il propagarsi della menzogna, contro coloro che fanno sfoggio della loro pretesa «salvezza» e la puntellano con una dottrina che non proviene dal loro intimo. Smascherarli, farli scendere dal piedistallo dove si sono issati, metterli alla gogna, è questo un compito cui nessuno dovrebbe restare indifferente. Perché ad ogni costo va impedito di vivere e morire in pace a coloro che hanno troppo buona coscienza. (1997, p. 15)
*Lo scetticismo: sorriso che sovrasta le parole... (1997, p. 180)
*Per quanto guardi alle cose con una smorfia di disgusto, il poeta non è mai un vero negatore. Voler rinvigorire le parole, infondere loro una nuova vita, presuppone un fanatismo, una obnubilazione fuori del comune: inventare – poeticamente – significa essere un complice e un appassionato del Verbo, un falso nichilista: ogni demiurgia verbale si sviluppa a spese della lucidità... [...] Che la poesia debba essere accessibile o ermetica, efficace o gratuita, è un problema secondario. Esercizio o rivelazione, che importa? Siamo noi che le domandiamo di liberarci dalla oppressione, dai tormenti del discorso. Se vi riesce, è la poesia a essere ''per un istante'' la nostra salvezza. (1997, pp. 180-181)
*La vita, lungi dall'essere, come pensava [[Marie François Xavier Bichat|Bichat]], l'insieme delle funzioni che resistono alla morte, è piuttosto l'insieme delle funzioni che ci trascinano ad essa. La nostra sostanza diminuisce a ogni passo; tuttavia tutti i nostri sforzi dovrebbero tendere a fare di questa diminuzione un eccitante, un principio d'efficacia. Coloro che non sanno trarre beneficio dalle loro possibilità di non-essere, restano estranei a se stessi: dei fantocci, degli oggetti provvisti di un io, assopiti in un tempo neutro, né durata né eternità. Esistere significa mettere a profitto la nostra parte d'irrealtà, significa vibrare al contatto del vuoto che è in noi. (1997, pp. 202-203)
*Poiché la [[vitalità]] ci proviene dalle nostre risorse di insensato, non disponiamo, per opporci ai nostri sgomenti e ai nostri dubbi, che delle certezze e della terapeutica del delirio. A furia di sragionare, mutiamoci in sorgente, in origine, in punto iniziale, moltiplichiamo con ogni mezzo i nostri ''momenti cosmogonici''. Esistiamo veramente solo quando irradiamo tempo, quando dei soli sorgono in noi e noi ne dispensiamo i raggi che illuminano gli istanti... (1997, p. 211)
*Non c'è opera che non si ritorca contro l'autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l'avvenimento l'uomo d'azione. Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina; l'unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e doni per potere, sgombro della sua qualità di uomo, sprofondare nell'essere. Se aspiro a una carriera metafisica, a nessun costo posso conservare la mia identità: devo liquidarne il minimo residuo che mi rimanga; e se, al contrario, mi avventuro in un ruolo storico, il compito che mi spetta sarà quello di esasperare le mie facoltà fino a esplodere con esse. Si perisce sempre a causa dell'io che si assume: portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare. (1997, pp. 11-12)