Emil Cioran: differenze tra le versioni

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*Ce l'ho col nostro secolo per averci soggiogati fino al punto di ossessionarci anche quando ce ne distacchiamo.
*«Come si può essere [[Romania|Rumeno]]»?, a questa domanda potevo rispondere soltanto con una incessante mortificazione. Odiando i miei, il mio paese, i suoi contadini fuori del tempo, irretiti dal loro torpore e come sprizzanti ebetudine, arrossivo d'esserne l'erede, li rinnegavo, mi ritraevo dalla loro sub-eternità, dalle loro certezze di larve pietrificate, dalle loro fantasticherie geologiche. (1997, p. 52)
*Per svilupparsi la [[prosa]] richiede un certo rigore, uno stato sociale differenziato e una tradizione: è premeditata, costruita; la [[poesia]] ''sgorga'', è diretta, oppure totalmente artificiale; appannaggio dei trogloditi e dei raffinati, non fiorisce che ai margini della civiltà, la precede oppure la segue. Mentre la prosa esige un genio maturo e una lingua cristallizzata, la poesia è perfettamente compatibile con un genio primitivo e una lingua informe. Creare una letteratura significa creare una prosa. (1997, p. 59)
*Sottrarsi al mondo, quale sforzo di annullamento! Da parte sua, l'[[apolidia|apolide]] vi giunge senza darsi un gran daffare, con il concorso — con l'ostilità — della storia. Niente tormenti né veglie per giungere a spogliarsi di tutto; vi è costretto dagli avvenimenti. In un certo senso, somiglia al malato, che come lui si installa senza merito personale nella metafisica o nella poesia, per forza di cose, grazie ai buoni uffici della malattia. Assoluto a buon mercato? Può darsi, quantunque resti da provare che i risultati acquisiti con sforzo valgono di più di quelli che derivano dal riposo nell'ineluttabile. (1997, pp. 59-60)
*[...] Egli {{ndr|[[Epicuro]]}} fu per il suo tempo quello che lo psicanalista è per il nostro: a suo modo non denunciava anche lui «il disagio della civiltà»? (In tutte le epoche confuse e raffinate, un [[Sigmund Freud|Freud]] tenta di alleggerire le anime). Più che con [[Socrate]], è con Epicuro che la filosofia scivolò verso la terapeutica. Guarire e soprattutto guarirsi, questa era la sua ambizione: benché volesse liberare gli uomini dalla paura della morte e da quella degli dèi, provava egli stesso sia l'una che l'altra. L'atarassia di cui si fregiava non costituiva la sua esperienza ordinaria: la sua «sensibilità» era notoria. Quanto al disprezzo per le scienze, disprezzo che gli è stato in seguito rimproverato, sappiamo come sovente sia proprio dei «cuori feriti». Questo teorico della felicità era un malato: vomitava, a quanto pare, due volte al giorno. In mezzo a quali miserie doveva dibattersi per aver tanto odiato i «turbamenti dell'anima»! Quel poco di serenità che riuscì a conquistare, senza dubbio la riservò ai suoi discepoli, i quali, riconoscenti e ingenui, gli crearono una reputazione da saggio. Siccome le nostre illusioni sono ben più deboli di quelle dei suoi contemporanei, intravediamo agevolmente il rovescio del suo Giardino... (1997, p. 159)
*Io mi levo contro il propagarsi della menzogna, contro coloro che fanno sfoggio della loro pretesa «salvezza» e la puntellano con una dottrina che non proviene dal loro intimo. Smascherarli, farli scendere dal piedistallo dove si sono issati, metterli alla gogna, è questo un compito cui nessuno dovrebbe restare indifferente. Perché ad ogni costo va impedito di vivere e morire in pace a coloro che hanno troppo buona coscienza. (1997, p. 15)