Ferdinand Gregorovius: differenze tra le versioni

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*Povere cose, invero, l'erudizione e l'archeologia! In questo angolo di paradiso le cose si sentono e si comprendono oggi come le sentivano e le comprendevano gli antichi. Qui regna ancora l'idea del culto di Bacco e l'immaginazione si solleva in alto come una baccante col tirso; qui ci sembra di staccarci dal suolo e, sciolti da ogni vincolo terreno, di spaziare nell'atmosfera. (''Napoli, 1854'', vol. IV, p. 28)
*Le bellezze della natura e i sentimenti cristiani, alla presenza delle più grandi meraviglie della creazione, risvegliano sempre idee tristi. Ero giunto su di una altura dove alcuni soldati svizzeri stavano bevendo fuori di una piccola bettola, una capanna di paglia. Di lassù si dominavano il mare, le isole di Nisida, di Procida e d'Ischia, tutte avvolte nel manto meraviglioso del sole al tramonto. Uno di quei soldati mi si avvicinò e, gettando uno sguardo su quello spettacolo meraviglioso, con tono di mestizia mi disse: «Come è bello! troppo bello!... rende melanconici...» (''Napoli, 1854'', vol. IV, pp. 28-29)
*Raggiungemmo quindi l'antica [[Ravello]] e ci trovammo tutto ad un tratto in una città moresca, con torri e case di stile arabo, fabbricata di tufo nero solitaria e tranquilla, abbandonata, quasi morta, sopra una verde pendice del monte. Si direbbe che è segregata da tutto il resto del mondo; non si vedono che alberi e rocce e da qualche punto il mare in lontananza. Nei giardini si osservano alte torri nere, case di stile moresco con arabeschi in parte rovinati, finestre ad arco con piccole colonne. Sulla piazza del Mercato, presso la chiesa, sorge un antico edificio di architettura araba, con ornati di gusto fantastico e con colonne meravigliosamente lavorate negli angoli. Il tetto riposa sopra una graziosissima cornice. Questo edificio è designato col nome di teatro moresco e non vi è dubbio che era il palazzo degli antichi signori di Ravello, imperocché questa città, ora deserta e derelitta, fu un tempo una colonia fiorente di Amalfi che contava trentaseimila abitanti. Ricche famiglie vi avevano introdotto il lusso a cui davano origine le loro relazioni con l'Oriente e il continuo commercio con i Saraceni stabiliti in Sicilia. Fra le più illustri erano annoverate le famiglie degli Afflitti, dei Ragadei, dei Castaldi e sopratutto dei Ruffoli. Si erano fabbricate tutte palazzi di stile moresco, con vasche, con getti d'acqua di vero gusto arabo, su disegni e sotto la direzione di artisti arabi. E' noto che Ravello si mantenne in relazione continua con i Saraceni, molti dei quali vi avevano presa dimora e gli Arabi vi tennero il presidio fino ai tempi di Manfredo. Avvenne perciò che questa piccola città fu una delle prime che accolse nell'Italia meridionale l'architettura araba ed oggidì è una delle poche che ne conservi ancora gli avanzi.<br> Trovai in Ravello maggiori avanzi di architettura moresca che in [[Palermo]] stesso, dove i castelli di [[Palazzo della Cuba|Cuba]] e della [[La Zisa|Zisa]] sono per la massima parte distrutti. (''Napoli, 1854'', vol. IV, pp. 64-65)
*Un mese intiero ho vissuto nell'[[isola di Capri]] ed ho goduto, in tutta la sua pienezza, la solitudine magica di quella marina. Così potessi io riprodurre le sensazioni ivi provate! Ma è impossibile descrivere con parole la bellezza e la tranquillità di quella romita solitudine. [[Jean Paul Richter|Giampaolo Richter]], contemplandola dalla terra ferma, ha paragonato Capri ad una sfinge; la bella isola a me è apparsa simile ad un sarcofago antico, fiancheggiato dalle Eumenidi scarmigliate, su cui campeggiasse la figura di [[Tiberio]]. La vista dell'isola ha sempre esercitato su me un vero fascino per la sua conformazione monumentale, per la sua solitudine, e per i cupi ricordi di quell'imperatore romano, che, signore del mondo intiero, considerava quello scoglio come sua unica e vera proprietà. (''L'isola di Capri'', vol IV, p. 99)
*Suonavano le campane allorquando approdammo; una graziosa fanciulla, figlia di un pescatore, si avanzò nell'acqua, afferrò la barca e, tenendola ferma alla riva, ci permise di scendere a piedi asciutti. Nello spiccare un salto sul suolo dell'isola di Capri, che io mi ero raffigurata tante volte sotto il nordico cielo natio, mi parve di trovarmi nella stessa mia casa. Tutto era silenzio e tranquillità; non si vedevano che un pescatore e due ragazzi intenti a bagnarsi presso uno scoglio, due giovanette sulla spiaggia, e tutto all'intorno rupi severe. Ero dunque giunto in una solitudine selvaggia e romantica insieme. Da quel punto della marina partiva un sentiero ripido e scosceso, che, fra mura di giardini, conduceva alla piccola città. Quei giardini aperti nei seni della rupe erano coltivati a viti, a olivi e ad agrumi, ma la vegetazione ne era meschina, specialmente per chi ne veniva dalla lussureggiante Campania. Anche gli alberi a Capri sembrano eremiti. Si accede alla cittadina per un ponte di legno e per una vecchia porta, dall'aspetto romito, in cui par che regni la pace e s'ignorino le umane necessità. Alcuni abitanti, vestiti a festa, stavano ciarlando, seduti sui gradini della chiesa. Parecchi ragazzi giocavano allegramente sulla piccola piazza, davanti al tempio, che pareva fatta appositamente per i loro giuochi. Le case, piccole, con i tetti a terrazza, avevano quasi tutte una pianta di vite arrampicantesi per le mura. Un'angusta stradicciuola, non mai percorsa da nessun veicolo, ci condusse alla locanda di Don Michele Pagano, di fronte alla quale sorgeva una stupenda palma. Anche quivi sembrava di arrivare in un eremo ridotto ad albergo per i pellegrini. (''L'isola di Capri'', vol IV, pp. 100-101)