Adolfo Venturi (storico dell'arte): differenze tra le versioni

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→‎La scultura del Trecento e le sue origini: l'Orcagna e i simboli religiosi
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==Citazioni di Adolfo Venturi==
*{{NDR|[[Michelangelo Merisi da Caravaggio]]}} ...cancella il valore disegnativo dato alla forma dai fiorentini, rifugge dai partiti decorativi, semplifica la visione degli oggetti per mezzo di un taglio, nitido, notturno, tra luce e ombra; approfondisce e semplifica la composizione. Dalle opere giovanili, composte ad armonia di chiari colori, sotto luci bionde e velari leggieri di ombre trasparenti, alle ultime, cupe e notturne, schiarate da luci crude e costrette, l'arte del Caravaggio sempre più afferma i suoi principi fondamentali plastico-luminosi, che fanno di lui il precursore dei massimi geni del Seicento europeo: da Franz Hals e Rembrandt, al primitivo Velàzquez.<ref>Da ''Disegno storico dell'arte italiana'', 1924; citato in {{Cita|Caravaggio|pag. 186|Francesca Marini, 2003|harv=s}}</ref>
 
*E benedetta sia quella [[fotografia]] che nella pittura e nel ritratto in ispecie, ci libera dalla produzione di tanti imbianchini, e tanto più preziosa fa divenire la grande arte, per la rarità del suo uso.<ref>Da un'intervista rilasciata ad [[Anton Giulio Bragaglia]]; citato in Ando Gilardi, ''Creatività e informazione fotografica'', in ''Storia dell'arte italiana'', Einaudi, Torino, 1982, vol. 9, tomo II, p. 567.</ref>
 
==''Leonardo e la sua scuola''==
*Tra gli scolari più antichi di Leonardo, [[Marco d'Oggiono]] (n. 1407?–1530), tendente al manierismo di lusso e di gran pratica, ripete, in modo pedestre, costantemente, le opere del maestro, le traduce nei proprii forti contrasti di chiaroscuro e nel proprio intenso colore. Il suo momento massimo è rappresentato dal "Salvator Mundi" della Galleria Borghese e dalla "Madonna allattante" del Museo del Louvre: opere con diligenza condotte, con i capelli delle figure lumeggiati uno ad uno, le sottili pieghe delle vesti color di rubino. La modellatura non manca di finezza, ma le teste son compresse, le mani gonfie, gli occhi sporgenti dall'orbita. (p. XXXII)
 
*Marco {{NDR|d'Oggiono}} dipinse i tre Arcangeli nella Galleria di Brera, facendo del vinciano Gabriele un vezzoso manichino; di Michele una macchinosa figura che oscura il cielo con le enormi ali distese e gli sbuffi tondeggianti del mantello; di Raffaele una grassa donzella imbarazzata nel sacco di pieghe delle vestimenta. Tra Gabriele e Raffaele è piombato Lucifero con la liscia testa di porcellana, le braccia sottili, le mani piccolette, le scure piante artigliate. L'artista già cade nella più uggiosa maniera, dimentico di proporzioni, di rapporti tra le figure e il paese, legnoso nelle figure memori del linearismo convenzionale del Civerchio<ref>Vincenzo Civerchio (1470 circa – 1544), pittore italiano.</ref>, cupreo nell'effetto di colore. (p. XXXII)
 
*Nella tarda "Assunzione" {{NDR|di Marco d'Oggiono}} della Galleria di Brera in Milano, gli Apostoli, che in terra si agitano per mirare l'Assunta in cielo, tra corone di nubi e di cherubini, non hanno più posto per muoversi; si attaccano, si accatastano, mentre i cherubini che attornian Maria con le chiocche della chioma al vento, con le gonfie vesti fasciate, volano, nuotano, cadono all'ingiù, perdon l'equilibrio. Tutto è sgangherato, tutto è come strappato a viva forza, per il grido dell'enfasi, per il tumulto degli elementi. Spentasi davanti agli occhi di Marco d'Oggiono la luce accesa dal maestro, egli s'irretì sempre più. Incapace di vedere un paese nella sua linea d'insieme, si contentò di far tutto di convenzione: paesaggio, figura umana, panneggio; cercò l'effetto nell'enfasi del gesto, nel turbinio barocco delle lucidi pieghe, nell'accesa tonalità dei colori; parve anticipare i giorni del manierismo romano, senza pur possedere la virtuosità, la forza, propria ai maggiori deguaci di Raffaello e di Michelangelo. (p. XXXII)
 
==''Storia dell'arte italiana''==
===[[Incipit]]===
*La religione del {{sic|Nazzareno}} arrivò dall'Oriente a Roma imperiale, ancora rigida nelle sue forme, avvolta nel mistero dell'infinito, tremante di ritrarre la immagine del Sommo Dio, e paurosa di rendere con forme d'arte i propri fasti.<br>La civiltà greco-romana, trasformata dalla religione cristiana, trasformò questa a sua volta, e la fece erede dell'arte antica, dandole forme esteriori, una costituzione che si fondò su quella dell'Impero e l'ellenico elevatissimo sentimento del destino umano. <!--(Vol. 1 ''Dai primordi dell'arte cristiana al tempo di Giustiniano'', cap. 1)-->
 
===Citazioni===
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====''La scultura del Trecento e le sue origini''====
*Queste quattro statue {{NDR|nel ciborio della basilica romana di San Paolo fuori le mura}} ci rivelano la grande arte di [[Arnolfo di Cambio|Arnolfo]]: appena nella figura dell'oratore, nel movimento avanzato dell'anca sinistra, si nota una lieve contorsione gotica: in tutto il resto esse sono forti e salde, e la testa naturalistica del vecchio frate, la superba figura dell'oratore, sicuro di sé, ci dicono come le grandi fonti dell'antico e della natura si unissero nell'arte di Arnolfo quali due torrenti nell'alveo di un fiume. (vol. IV, p. 80)
 
*Compiuto il monumento di Bonifacio VIII in San Pietro, Arnolfo tornò a Firenze a continuar l'opera di Santa Maria del Fiore, e a rinnovare, con la potenza del suo genio, l'arte fiorentina. Ma ben presto, l'8 di marzo 1302, secondo le ricerche del Frey<ref>Karl Frey.</ref>, venne meno il grande scultore e architetto, il maestro caro a Carlo I d'Angiò ed ai romani Pontefici, desiderato dai Perugini quando ancora Giovanni Pisano lavorava alla fonte di Piazza. Morì lasciando un'orma eterna, facendo sorgere come per incanto, in un breve corso d'anni, Santa Croce, Santa Maria del Fiore e il Palazzo Vecchio di Firenze. La scultura iconica ebbe da lui il maggiore sviluppo, l'architettura nuovi fondamenti. (vol. IV, p. 167)
 
*Andrea di Cione Arcangnuolo o Arcangio o Arcagnio, detto l'[[Orcagna]], compare per la prima volta nel 1343 tra i pittori fiorentini, e, nove anni dopo, iscritto tra i maestri di pietra e di legname. Pittore, {{sic|musaicista}}, scultore, architetto, poeta, fu esempio della versatilità artistica italiana, personificazione dell'unità delle arti. (vol. IV, p. 637)
 
*Niuna delle figure {{NDR|del tabernacolo di Orsanmichele}} ha il capo circondato del nimbo o è avvolta da un'aureola, perché già gli uomini raccontavano di avvenimenti sacri come di cose famigliari, e si avvicinava il momento in cui l'arte religiosa rifletterà la vita sociale ne' suoi aspetti. L'Orcagna tolse i simboli, perché sentì di esprimere anche senza di essi, sinceramente, la sua devozione. (vol. IV, p. 640)
 
*Nel rappresentare {{NDR|nel tabernacolo di Orsanmichele}} una scena solenne, come quella dell<nowiki>'</nowiki>''Assunzione'', {{NDR|l'Orcagna}} ricordò d'essere non solo scultore, ma anche {{sic|musaicista}}, per ottenere gli effetti più vivi e abbaglianti, col fondo di smalto azzurro sparso di stelle. E ricordò d'essere architetto quando quei bassorilievi e quei musaici dispose nel tabernacolo, mirabile per l'armonia delle parti, per la nobilissima eleganza dell'insieme, per la maestà assunta dallo stile gotico. Dalle sue sculture spira un'aria grave, melanconica. Non sembra giusto di figurarci l'Orcagna come uno spirito irrequieto che tenti sempre cose nuove; è piuttosto un maestro laborioso, pratico e sodo. Le sue figure non hanno quella vita degli occhi che spira nelle opere trecentesche; tuttavia la ''Fede'' dalle pupille estasiate, Maria che riceve l'annuncio della fine della vita mortale, gli {{sic|angioli}} presi da incanto che abbassano le ali lungo i pilastri del tabernacolo, mostrano quanto fosse alto nell'Orcagna il sentimento della convenienza religiosa. (vol. IV, p. 662)
 
====''La pittura del Trecento e le sue origini''====
*Abbiamo veduto così, tra i maestri che dipinsero le tavole del {{sic|Dugento}}<ref>Toscanismo per Duecento.</ref>, il Berlinghieri ligio a forme antiquate, Margaritone disfatto, Giunta grossolano, [[Coppo di Marcovaldo]] imitatore garbato de' Bizantini, Guido da Siena stampatore di Madonne, ecc. Tuttavia dagli uni agli altri le forme si vanno elaborando e digrossando, finché Cimabue irrompe con la sua passione tra gli stanchi fantasmi dell'arte romanica, e sopraggiungono Pietro Cavallini, a ridare romana forza ad Apostoli e Santi, Duccio di {{sic|Boninsegna}}, a coronare le tradizioni bizantine; Giotto a creare il damma sacro, la divina Commedia. (vol. V, pp. 121-122)
 
*Nel 1291, quando [[Pietro Cavallini]] lavorava i {{sic|musaici}} di Santa Maria in Trastevere, un gran progresso dovette essere avvenuto nella sua maniera, [...]. Non si vedono più figure piatte su fondi d'oro, ma scene aventi rilievo e gareggianti con la pittura, vesti a colori schiariti e svaniti nelle parti avvivate da bianche luci, intensi gradatamente nelle ombre. L'oro, non steso più ne' manti come su lastre metalliche, s'intesse ne' broccati e nelle tele, trae dalle penne del pavone il suo splendore per raggiare nell'ala dell'angiolo dell'''Annunciazione'', filetta i contorni, sparge di moschette o alluciola i panni per mettere all'unisono il fondo con le figure sovrapposte, che sembrano intagliate nelle onici o nelle gemme. (vol. V, pp. 141-143)
 
*Nonostante le affinità che si devono riconoscere tra i due maestri, [[Cimabue]] è più plastico, poderoso e massiccio, il Cavallini più grandioso e monumentale; Cimabue modella con insistenza le figure, come se dovesse formarle nel bronzo, il Cavallini dà loro slancio potente; Cimabue elabora tipi bizantini rendendoli grifagni, Cavallini è più libero dalla convenzione bizantina e più classico; Cimabue prepara gl'intonachi con una tinta nerastra, il Cavallini di rosso. (vol. V, pp. 201-206)
 
*L'ultima opera certa di lui, la tavola della ''Natività della Vergine'', nel Museo dell'Opera di Siena, ci mostra come, invecchiando, debole di spirito e di forma, sempre più si accostasse alla vita, vestendo de' costumi del tempo i personaggi, staccandosi dagli esemplari di Duccio<ref>[[Duccio di Buoninsegna]].</ref> e avvicinandosi sempre di più al fratello<ref>[[Ambrogio Lorenzetti]].</ref>. Ma la morte troncò, verso il 1350, i nuovo conati di [[Pietro Lorenzetti]]. Gli ultimi suoi anni sono avvolti nel mistero; e la notizia d'un quadro di lui, esistente nella chiesa di San Francesco ad Avignone, potrebbe generare il sospetto che là si recasse il maestro dopo avvenuta la morte di Simone Martini. (vol. V, p. 678)
 
*Un ciclo di pitture che ha reso famoso Pietro Lorenzetti è quello della basilica inferiore d'Assisi. Prudentemente il Thode<ref>Thode, ''Franz von Assisi'', Berlin, 1904, pag. 294. {{NDR|(N.d.A., p. 680)}}</ref> notò che si ebbe ragione a toglierle a Puccio Capanna, a Pietro Cavallini e a Giotto, ma che si andò troppo oltre nell'assegnarle a quell'autore e non a' suoi seguaci. (vol. V, p. 680)
 
*{{NDR|Commentando il ciclo degli affreschi dell'''Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo'' nel Palazzo Pubblico di Siena}} Prima che l'umanesimo richiamasse in onore le divinità pagane rimaste per tutto il medioevo nell'immaginazione popolare, rideste ai primi tepori della civiltà nuova, [[Ambrogio Lorenzetti]] rende loro lo scettro sugli uomini.<br>L<nowiki>'</nowiki>''Estate'' ha il tipo pieno, rubicondo, proprio di Ambrogio, il quale qui fu meno scarso del solito nel segnare i tre quarti del volto della figura, e rapido nel tratto, sciolto, freschissimo. L<nowiki>'</nowiki>''Autunno'' pare un'incisione a due tinte per le bianche lumeggiature sulle carni abbronzate, ora a tratti veloci e ora a masse sulle parti prominenti e più esposte alla luce. C'è modernità in quegli schizzi a colpi, saldezza d'arte progredita, libertà di maestro. Ambrogio Lorenzetti è più nuovo che non nelle opere finite in quegli abbozzi decorativi dove si lascia sorprendere senza la dottorale zimarra che sembra indossare di solito. (vol. V, pp. 709-710)
 
*[...] più che da Giotto e dai Fiorentini, come si è ritenuto sin qui, Ambrogio attinse da Simone Martini e dal fratello {{NDR|[[Pietro Lorenzetti|Pietro]]}}, come può vedersi nella ''Madonna del latte'' in San Francesco di Siena, dove i contorni del volto di Maria sono crudi, scarsi e manchevoli nello scorcio, le mani hanno dita staccate e aperte, il drappo involgente il Bambino prende curve gotiche. Era naturale che Ambrogio e Pietro, fratelli e talvolta cooperanti, influissero l'uno sull'altro, e che il più giovane {{NDR|Ambrogio}} prendesse qualche abitudine dal fratello maggiore saputo ed esperto. (vol. V, p. 722)
 
*Recò nuove forze in Toscana, pure attingendovi nobiltà di forma, [[Antonio Veneziano]], succeduto ad Andrea da Firenze come continuatore delle ''Storie di Ranieri'' nel Camposanto di Pisa. Vuolsi scolaro di Taddeo Gaddi, perché le sue forme si attengono ai grandi esemplari di Giotto, ma son più prossime direttamente a queste che non a quelle di Taddeo o di Agnolo Gaddi, più vere, più equilibrate e armoniose, più limpide di colore e più liete. (vol. V, p. 915)
 
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====''La pittura del Quattrocento''====
*Tra i quadri più antichi di [[Gentile da Fabriano|Gentile]] è il polittico dipinto per la chiesa dei minori Osservanti a Valle Romita, ora in molte parti nella Galleria di Brera a Milano. Il pittore si mostra arcaistico più che in altre opere, rappresentando l'Eterno, nell'''Incoronazione'', come un vegliardo colossale, con alta corona gotica, circondato da cherubini dalle ali cangianti, come biforcate; la Vergine e il Redentore seduti nello spazio sopra raggi e fiamme; [...]. (vol. VII, parte 1, p. 190)
 
*A Firenze, Gentile, l'apparatore magnifico, riversa fiori nelle gotiche cornici, popola di cavalli, di cani, di scimmie, di uccelli la scena dell'''Adorazione dei Magi''. Passano i Re sul fondo, di contrada in contrada, scendono le erte montane, varcano i ponti levatoi de' castelli, seguiti da cortigiani col falco in pugno, da cacciatori col {{sic|guepardo}}. Il più vecchio si prostra, bacia un piede al divin Bambino che gli pone una manina sulla testa calva; e gli altri due Re offrono riverenti i doni chiusi come in gotici reliquiarî. Vesti di broccato e di damasco, cinture gemmate e con caratteri cufici, come ne' vasi ageminati della Persia, bardature e fornimenti d'oro de' cavalli, risplendono in quella scena strabocchevole di ricchezza, dove il pittore fa la ruota, pavone dalle iridiscenti penne occhiute. (vol. VII, parte 1, pp. 196-198)
 
*Rispetto al Fabrianese {{NDR|Gentile da Fabriano}} il [[Pisanello]] sembra un improvvisatore, il quale da ogni cosa che lo circonda, e più che da sé stesso e dai suoi simili, tragga dalla vita degli animali i motivi dell'arte. Cani d'ogni specie, cavalli e muli, scimmie, animali rari e comuni, uccelli visti a volo per le valli o addestrati alla caccia, formano ogni sua delizia. Vero pittore d'animali, ne spia gli istinti ne traduce rapidamente le forme, le abitudini, i moti, ne rende i peli, le piume, le chiazze del colore della pelle, li figura ne' più variati e fuggevoli aspetti; se non gli riesce di sorprenderli di fronte, li persegue a tergo pian piano con la punta d'argento o la penna. (vol. VII, parte 1, p. 250)
 
*{{NDR|Commentando l'affresco ''San Giorgio e la principessa'' nella chiesa di Santa Anastasia a Verona}} Qui veramente il Pisanello mostrò la gran novità dell'arte sua, il talento di attore: non la scena di sangue e di morte, ma il momento d'ansia, il silenzio drammatico dell'ultimo momento d'attesa, che precede la folgore e lo scoscio della tempesta. (vol. VII, parte 1, pp. 258-259)
 
*È probabile che, dalla maturità in poi, applicatosi specialmente ad eseguir medaglie, il Pisanello lasciasse frammentarie le ricerche dei moti dell'espressione e della vita umana. Oltre i disegni d'animali, tengono il primo posto quelli de' ritratti che dovevan servirgli a modellar medaglie. (vol. VII, parte 1, p. 263)
 
*[[Paolo Uccello]] {{NDR|nel ''Diluvio''}} fece ignude gran parte delle sue figure, quasi a meglio mostrare il brivido de' corpi e il gelo delle ossa, in mezzo alla furia degli elementi, sotto il fato che incombe terribile. [...]. Non gli basta disegnare la convulsione dei corpi, ma li fa macerare dalle acque, sbattere dai venti, intirizzire dallo spavento; e da per tutto, nelle acque rigonfie, nel cielo tempestoso, nella furia dell'aria, fa rombare la morte. (vol. VII, parte 1, p. 338)
 
*[...] [[Donatello]] non ispirò Andrea {{NDR|del Castagno}} soltanto nell'ornare alla classica la sala del ''Cenacolo'', ma anche nel drappeggiare i personaggi nelle vesti dalle pieghe con forti addentramenti, nodose e contorte. Con lo studio delle forme nuove nell'architettura e nell'ornamentazione, [[Andrea del Castagno]] associò quello del rilevo e della prospettiva, facendo che tutte le figure del ''Cenacolo'' si veggano dal punto di vista dell'osservatore scorciare dal sotto in su con il pavimento, gli scanni, la mensa e i lacunari del soffitto. E nonostante tutte queste raffinatezze d'arte e di tecnica, serbò la sua fibra campagnuola energica e rude. (vol. VII, parte 1, p. 348)
 
*La luminosità del colorito elegantissimo e puro, appresa da Masolino e dall'Angelico, ammodernata con lo studio della prospettiva aerea, forma il gran merito di [[Domenico Veneziano]], ch'ebbe ad aiuto e cooperatore [[Piero della Francesca]], il maestro che portò a perfezione quella tecnica, quel dolcissimo impasto di colore e di luce. (vol. VII, parte 1, p. 359)
*La logica, il senso pratico di cui era dotato [[Filippo Lippi]], ne fa presto un ribelle all'iconografia sacra. Quando dipinse per la moglie di Cosimo de' Medici la tavola della ''Natività'', [...], nell'alto del quadro fece sporgere le due mani dell'Eterno. In antico s'era indicato con una mano sporgente dal cielo l'intervento di Dio Padre; ma Egli non è monco, avrà pensato Fra' Filippo, e dipinse le due mani aperte in atto di protezione. (vol. VII, parte 1, p. 364)
 
*Sin dalle opere prime giunte a noi, il pittore {{NDR|Filippo Lippi}} scuote il gioco iconografico, cerca libertà di forme e d'immagini. Gli insegnamenti del [[Beato Angelico]] si perdono nelle sue figure dalle teste schiacciate e quadre, dal naso corto, dalla bocca larga, dalle mani fanciullesche. Molte di esse par che stiano sospettose in ascolto, e solo si elevano alquanto se entro l'arte del Frate<ref>Filippo Lippi fu frate carmelitano fino al 1461, quando papa Pio II lo dispensò dai voti.</ref> penetra un ricordo dell'Angelico. Allora si illuminano le carni, e la grazia veste i corpi atticciati e ne schiara gli aspetti. (vol. VII, parte 1, p. 366)
 
*{{NDR|Filippo Lippi}} Nel 1450 gli fu tolto il titolo di rettore e commendatario di san Quirico a Legnaia, per non aver pagato un debito e, peggio, per aver fatta una quietanza falsa a fine di provare d'averlo pagato. Ma molto gli fu perdonato perché molto si fece perdonare per le opere sue, [...]. (vol. VII, parte 1, p. 374)
 
*Conquistata la tecnica, il [[Pesellino]] sembra buttarsi a capofitto nel piacere, nel gaudio della vita, nella società più che mai fiorita. Abbellendosi, scaldandosi, rallegrandosi tutto, mirò ad altri maestri, come Paolo Uccello, per imparare a render lo spazio, a rappresentare le delizie del paese, a scorciar corpi per dar vivezza ai moti. (vol. VII, parte 1, pp. 392-393)
*Gentilezza senza preziosità, tenerezza senza sdolcinatura, un certo languore nell'espressione e nella grazia di corpi talvolta toscanamente dinoccolati; raffinatezza di segno, colori eletti e splendenti, chiaroscuro sempre più intenso e profondo: tale è il fiore dell'arte di Francesco Pesellino. (vol. VII, parte 1, p. 402)
 
*{{NDR|Riferendosi ad alcuni quadri conservati nella Pinacoteca di Siena}} [...] in tutto il [[Sassetta]] porta una amorosa cura, una delicatezza di segno, una colorazione delle carni rosate nella luce, verdognole nell'ombra, una dolcezza di effetti nuovi nella pittura senese quattrocentesca. (vol. VII, parte 1, p. 492)
 
*Con l'anima di trecentista, il Sassetta lavorò nel tempo nuovo, dando timide espressioni fanciullesche alle figure spoglie d'ogni grandezza e d'ogni forza. La grande ideal sintesi di Giotto non è più nella rappresentazione della leggenda francescana: le animule figurate del Sassetta vorrebbero vivere nel mondo ultrasensibile. (vol. VII, parte 1, p. 494)
 
*{{NDR|Commentando l'affresco ''Disputa di S. Tommaso'' nella Cappella Carafa della basilica romana di S. Maria sopra Minerva}} In Roma Filippino par che senta il freddo prendere le sue composizioni delicate, e si sforza ad accentuare lineamenti, anche a ingrossarli. Tra i disputanti, parecchi hanno labbra tumide, slargate, {{sic|nari}} vibranti, orecchie carnose curvate, pesanti vestimenta contorte. Filippino cerca di render la carne, l'aggrotta sulla fronte, l'ammonta sulle sopracciglia, la gonfia nelle {{sic|guancie}} dalla linea che parte dalle nari acute, la rigonfia all'estremità delle labbra, l'affloscia e l'imbudella sul collo. Roma imbarocchisce il {{sic|dòlce}}, il timido Filippino. (vol. VII, parte 1, pp. 654-656)
 
*La educazione pittorica di [[Domenico Ghirlandaio]] si può ricercare nell'opera che con tutta probabilità è la prima in cui l'artista si esprima compiutamente, cioè nella cappella di Santa Fina a San Gimignano, ove sembra un continuatore perfezionato, raffinato di [[Benozzo Gozzoli|Benozzo di Lese]]<ref>Benozzo di Lese di Sandro (1420 circa – 1497), più noto con il nome di Benozzo Gozzoli.</ref>. (vol. VII, parte 1, p. 716)
 
*{{NDR|Commentando la pala eseguita dal Ghirlandaio per l'altare maggiore della chiesa di San Giusto alle Mura, detta degli Ingesuati, ora conservata agli Uffizi}} La tavola dimostra sì che il Ghirlandaio è uscito dalla stessa corrente artistica dalla quale uscirono il Botticelli e Filippino Lippi; ma pare che il giovane pittore avesse l'animo aperto al nuovo, e raccogliesse fiori da altri giardini non piantati da Fra' Filippo<ref>Filippo Lippi.</ref>, e specialmente da quelli di Andrea Verrocchio. (vol. VII, parte 1, p. 724)
 
*Più che con gli scarsi dipinti, il Verrocchio insegnò con l'opera di orafo e di scultore; ma anche con la sua tecnica esperienza di pittore dette impulsi verso la perfezione della pittura toscana, usando i nuovi metodi del colorire ad olio, giungendo nella costruzione del nudo a forte solidità e a sicura penetrazione de' muscoli e delle ossa, arrivando a imprimere nei corpi una forza vitale, più che con l'atletica potenza de' {{sic|Pollaiuolo}}<ref>Antonio e Piero del Pollaiolo.</ref>, con la grandezza morale, l'incisiva sobrietà delle linee, l'orgoglio della massa severa. (vol. VII, parte 1, pp. 784-785)
 
*[[Andrea Mantegna]] si era ricusato di far miniature per Isabella d'Este, dicendo di non aver attitudine alle cose minuscole, [...]. (vol. VII, parte 2, p. 454)
 
*Lo svolgimento classico della rappresentazione della Natività, [...], trova nell'esordire di [[Giovanni Bellini]] il più alto coefficiente. Appena della educazione di [[Jacopo Bellini|Jacopo]], suo padre, si trova un lontano accenno nelle lunghe proporzioni della Madonna e nelle congiunte mani lunghette. Egli dà delicatezza al volto della Vergine ed esprime mirabilmente il sonno del fanciullo negli occhi stretti, nella boccuccia respirante, nel braccetto destro penzoloni. Il trono, con ornati del Rinascimento, alla donatelliana, dice la tendenza dell'artista, indirizzata ne' suoi primi anni dal padre stesso verso Padova. (vol. VII, parte 3, pp. 420-424)
 
*[[Lorenzo Costa]] fu educato dal [[Cosmè Tura|Tura]] a Ferrara, com'è dimostrato dal ''San Sebastiano'' della Galleria di Dresda, attribuito al maestro stesso, pur recando una scritta ebraica col nome del pittore. Lo stridore di certi effetti, come della colonna di malachite su cui si appoggia il Santo, la crudezza dei lineamenti, segnati grossamente di nero, la mancanza dell'energia, perenne in Cosmè, il minor tondeggiare delle forme, le pieghe del drappo che cinge i fianchi, insolite nel Tura: tutto mostra un coloritore che si attiene al caposcuola ferrarese, ma sommariamente, senza gagliardia e senza profondità. Si ha l'impressione come di un Tura lustrato, superficiale, tagliente nei contorni, con la materialità di un lavoro scolastico. Perciò convien tener fede alla iscrizione, letta e riletta, col nome di Lorenzo Costa. (vol. VII, parte 3, p. 761)
 
*Col suo non ricco bagaglio sminuito lungo la via, l'artista {{NDR|Lorenzo Costa}} si recò a Mantova a sostituire il Mantegna come pittore ufficiale di Corte {{NDR|dei Gonzaga}}. Benché rappresentante di una generazione posteriore al venerando maestro, era stato preso da sonnolenza, e i suoi corpi parevano divorati dalla lue da cui egli era infetto. La ricerca della grazia, della spiritualità e della poesia, che ferveva in tutta l'arte italiana, si era espressa da lui con la diminuzione della monumentalità e la pieghevolezza dei corpi; e dentro gli schemi lineari dedotti dalla plastica venne meno la plasticità. (vol. VII, parte 3, p. 804)
 
*Egli {{NDR|[[Francesco Francia]]}} era entrato nel Cinquecento con l'ancona<ref name="Ancona">Pala d'altare.</ref> di Pietroburgo, rinnovellato, colmo di plastica forza. E continuò cercando nella purificazione de' suoi tipi, nuovi ideali. Il realismo quattrocentesco cadde con lui, che tramandò per mezzo di Timoteo della Vite<ref>Timoteo Viti (1469 – 1523), pittore italiano.</ref> il decoro formale a Raffaello. Non estese le ricerche, sempre intento a trarre armonie da' suoi modelli, come prima cesellati gli argenti ne svelava il nitore. Non ebbe slanci di ascetismo, non mistici ardori, ma {{sic|divozione}} salda e sincera. E donò alle sue immagini la bontà e l'umiltà de' propri costumi. Molti vollero imitarlo; ma egli poteva esser copiato, non imitato. L'arte sua era come un chiuso vaso d'alabastro, che altri non poteva aprire per mirarvi dentro senza che ne esalassero gl'interni profumi. (vol. VII, parte 3, pp. 949-952)
 
*Impacciato a render l'ambiente architettonico, assetato d'aria e di luce, [[Cima da Conegliano|Cima]] fa cadere ogni sipario, dipingendo nell'anno seguente {{NDR|il 1496}} la Madonna fra i Santi Lorenzo e Girolamo. La semplice logica dell'artista trevigiano vuol dar ragione della forma compositiva insolita, ed ecco che egli unisce alla ''Sacra conversazione'' un episodio della ''Fuga in Egitto'' ridotto a semplice macchietta: Giuseppe, buon vecchio pastore, conduce al pascolo il somarello nei prati del fondo. La concezione del gruppo, sotto il mantegnesco albero d'arancio, è essenzialmente plastica. Acute, lucenti, alla maniera vicentina si staccano le foglie sul chiaro cielo, e altissime si alzano le piante in confronto al colle di Conegliano, che poco s'allontana nella visione del paese. [...] Noncurante di effetti prospettici, Cima non sa ancora architettare lo spazio; e il gruppo divino, con le solide forme statuarie, si rileva sul fondo di alberi e di monti come sopra un commesso di marmi variopinti. (vol. VII, parte 4, p. 512)
 
*{{NDR|Cima da Conegliano}} E in ogni tempo, ovunque suoni caro il {{sic|balbettìo}} dell'infanzia, sarà amato l'umile montanaro di Conegliano, che ci dette un poema lieto di suoni dolci, tranquilli, di ritmi armoniosi, di cadenze portate dall'aria di primavera. Fuor dal paesello {{sic|natìo}} il poeta serbò l'ingenuità del cuore, la timida bontà, l'umiltà dell'aspetto, la pietà sincera. A Venezia i grandi pittori s'accorsero ch'egli portava un'onda sana, fresca, dai monti alla città magnifica; Giambellino<ref>[[Giovanni Bellini]], noto anche con il nome di Giambellino.</ref> volse gli occhi umanissimi come a immagine impicciolita di se medesimo, e gli fece onore valendosi della sua invenzione del ''Battesimo di Cristo''; Tiziano da giovane guardò sorridente verso di lui, mentre era in cerca di tipi ai quali dar poi carni vive; Sebastiano del Piombo esordiente lo copiò come si copiano gli esemplari grati allo spirito nei {{sic|di}} delle prime prove. E molti lo seguirono, senza però spargere dalle opere i suoi ricordi di bianchi fiori alpestri, del riso dei monti azzurri, della pace de' campi e de' cuori. (vol. VII, parte 4, p. 551)
 
*Da giovane [[Vittore Carpaccio|Vittor Carpaccio]] sentì pure gl'influssi di questo maestro {{NDR|[[Lazzaro Bastiani]]}} e ne serbò l'incertezza dell'architettura dei corpi e degli ambienti. Rimase l'educazione prospettica all'ingrosso; ma la fantasia e la mano del Carpaccio, pronte ai voli, nascosero le deficienze dell'educazione. Per molto tempo però, ogni volta che la mano s'allentava, rispuntavano, per forza d'inerzia, le figure bastianesche; ogni qualvolta eran ripresi necessariamente dall'artista i vecchi schemi di composizione, riappariva qualche frammento del primitivo lavoro, che pareva sommerso nel corso degli anni. (vol. VII, parte 4, p. 612)
 
*Nel 1496 {{NDR|[[Bernardino de Conti]]}} dipinse il ritratto di Francesco, figlio di Giangaleazzo Sforza, ora nella Galleria Vaticana, fantoccio dalle carni imbottite, i capelli di stoppa, il busto deformato dalla mancanza di scorcio, le mani di stucco con le dita gonfie. (vol. VII, parte 4, p. 1042)
 
*Nella libera replica della ''Madonna delle {{sic|Rocce}}'', del 1522, ora nella Galleria di Brera, Bernardino {{sic|de'}} Conti, parafrasando Leonardo, dà alla Madonna un movimento sgangherato, occhi e lineamenti grossi, capelli intrecciati a catena; e dà ai bambini, tratti da un altro modello leonardesco ripetuto da tutta la schiera de' seguaci, corpi gonfi, occhi smorti ed enormi fronti convesse. Il fondo di rocce, apparato fantastico composto da Leonardo con l'osservazione del vero, è qui mutato in un capriccioso torracchione, tutto frastagliato e forato, e i pinnacoli diventano torricelle con certe strane dentellature, come di chiavi; pizzettature di cartone sembrano le stalagmiti immaginate dal maestro sopra il capo delle sacre figure, e strani monticelli a ventaglio allineati sull'acqua diventano le scogliere lontane, uscenti nell'esemplare dalla nebbia luminosa. Copiando Leonardo, Bernardino mostrò di non aver nulla inteso dei principî del maestro. (vol. VII, parte 4, pp. 1042-1043)
 
====''L'architettura del Quattrocento''====
*L'esordio di [[Filippo Brunelleschi|{{sic|Filippo Brunellesco}}]] nell'arte fu esordio di orafo e di scultore, non d'architetto. Due opere, oltre le mezze figurette di profeti emergenti dal quadrifoglio nel dossale d'argento di Pistoia, rimangono a porre in luce le sue qualità di scultore: il ''Crocefisso'' in legno di Santa Maria Novella in Firenze, e il ''Sacrificio d'Abramo'' nel Museo del Bargello. In esse, come nelle gloriose architetture brunelleschiane, la forma tende a definirsi in profili affilati e vibranti, si crea da principi lineari piuttosto che plastici. (vol. VIII, parte 1, p. 90)
 
*Ma gloria di Filippo Brunellesco è la sua opera d'architetto, che inizia il [[Rinascimento]] fiorentino, sostituendo alla visione pittorica, attuata negli edifici del Trecento, da complessa disposizione di elementi architettonici e dai conseguenti giochi d'ombra e di luce, la regolarità dello squadro, un più largo uso della linea orizzontale e dell'arco a tutto tondo: la semplificazione che caratterizza, anche per la scultura e la pittura, lo stil nuovo. [...]; Filippo Brunellesco, alle soglie del Quattrocento, compie la riforma dell'architettura, parallela a quella di [[Masaccio]] nella pittura: il passaggio dai ricami del gotico alle pure eleganze costruttive del primo Rinascimento. L'arte classica lo ispira, e ancor più gli esempi dell'arte romanica fiorentina, miracolosa fioritura di forme antiche tradotte con toscana snellezza. (vol. VIII, parte 1, p. 92)
 
*Il capolavoro di [[Baldassarre Peruzzi]], la Farnesina, vario di effetti per il movimento della pianta, la {{sic|moltiplicità}} dei gradi nell'antica base, la fuga dei viali d'arcate nel criptoportico, mantiene ancora le impronte del tardo Quattrocento senese, con la sottigliezza forbita e compassata propria alle opere primitive del Peruzzi, nelle lunghe lesene della fronte, nelle sottili finestre rettangolari, punteggiate in alto dalle finestruole appese come tabelle alle cornici del fregio. (vol. VIII, parte 1, pp. 917-919)
 
*Le tracce dell'antica educazione senese quasi dispaiono in una tarda opera romana dell'architetto {{NDR|Peruzzi}}, il palazzo Massimo delle Colonne, rifugiandosi in qualche sagoma di finestra, in qualche trama d'ornato: l'amore del grandioso, della cinquecentesca opulenza, allontana dalle sue origini l'arte di Baldassarre Peruzzi, che, nei primordi, pur riflettendo gli schemi di [[Francesco di Giorgio Martini|Francesco di Giorgio]], ci appare vestita di una armoniosa e fredda compostezza, lontana dallo spirito vivace del celebrato ingegnere-architetto di Siena. (vol. VIII, parte 1, p. 919)
 
====''La pittura del Cinquecento''====
*La grande pittura murale {{NDR|il [[Ultima Cena (Leonardo)|Cenacolo]]}} fu dipinta ad olio; e il Bandello, come abbiamo udito, racconta d'aver veduto [[Leonardo da Vinci|Leonardo]] dar talvolta poche pennellate e andar via, ciò non si sarebbe potuto fare con la pittura a fresco. L'esecuzione a olio fu appunto la prima causa della rovina. Verso la metà del Cinquecento il lavoro era già deperitissimo, e il Vasari, nel 1566, non vi scorgeva più che una «macchia abbagliata». (vol. IX, parte 1, p. 29)
 
*Raccontasi che, mentre gli Arrabbiati<ref>Fazione di fiorentini nemici di Girolamo Savonarola e dei piagnoni suoi seguaci.</ref> assediavano il convento di San Marco, [[Fra Bartolomeo|Baccio della Porta]], insieme coi partigiani del [[Girolamo Savonarola|Savonarola]], si chiudesse nel convento per difendere la vita del venerato maestro, e deponesse tremante le armi, quando il Savonarola, per cessare la carneficina, si dette nelle mani dei nemici. Spettatore di tanta tragedia, volse nell'animo l'idea di farsi frate in quel convento stesso di San Marco, che aveva veduto devastato campo di battaglia, incendiato dall'odio popolare, mentre il Savonarola, davanti all'Ostia Santa, pregava coi monaci nel coro. (vol. IX, parte 1, p. 225)
 
*{{NDR|Commentando il ''Ritratto di una giovane donna'' negli Uffizi}} [...] tra le opere più significative del talento pittorico di Andrea. [...] Le belle mani che escono dalla manica arricciata, come da una capricciosa corolla di fiore, così bianche e morbide da rivelarci in [[Andrea del Sarto]] il solo pittore capace, in Firenze, di gareggiar coi Veneti, signori del pennello. (vol. IX, parte 1, p. 538)
 
*Agli occhi del giovane pittore {{NDR|[[Correggio]]}}, avvezzi alle sottigliezze, alle ondulazioni di linee miti, {{sic|divote}}, [...] dovette presentarsi come un nuovo mondo Mantova, impero dello statuario Mantegna. La forma solenne e massiccia di Andrea piombava romanamente sull'altare della Madonna della Vittoria, foggiava un classico scenario coi celebri ''Trionfi di Cesare'', si disponeva in ritmo grandioso sulle pareti della Camera degli sposi, ove i Gonzaga avevan voluto ricordare le feste familiari con una imponenza sorpassante l'avvenimento casalingo. (vol. IX, parte 2, p. 618)
 
*[...] il [[Parmigianino]], oscillante tra le forme di Raffaello e del Correggio, ci si presenta come un grande virtuoso, un principe della moda, un esteta che giunge per sottili ragionamenti all'arte, piuttosto che un pittore nato, un pittore d'istinto quale fu il suo conterraneo [[Correggio]]. (vol. IX, parte 2, p. 691)
 
*[...] [[Giampietrino]] richiama, nello sfumato delle carni ceree e nei fondi velati di nebbia, la dolce monotonia delle tonalità borgognonesche, arrotando e inarcando le forme sugli esempi di Leonardo [...]. (vol. IX, parte 2, p. 743)
 
*Le prime opere di [[Gaudenzio Ferrari|Gaudenzio]], non rovinate come i frammenti d'affresco nella cappella della Flagellazione a Varallo, ora distrutta, sono le tavolette della ''Vita di Cristo'' nella Pinacoteca torinese. Esse rivelano l'origine schiettamente lombarda del pittore e la sua tendenza a una stilizzazione lineare facile ed elegante, a effetti luministici ottenuti mediante vitree filettature, a lente e languide cadenze. (vol. IX, parte 2, pp. 812-813)
 
*Il colore del [[Romanino]] si stempera e dilaga nelle forme allargate delle figure; mentre la pasta del colore s'intenerisce, le forme aggrandiscono, e si svuotan di forza. Anche nell'''Assunta'' della chiesa di Sant'Alessandro in Colonna, a Bergamo, ove ancora non sono gonfie le immagini, appare il tormento del pittore intento a cumular nugoli sopra nugoli, monti sopra monti, a torcer drappi, ad acuire gli atteggiamenti degli Apostoli sorpresi. Tranne uno che guarda in alto alla celeste bambola<ref>Verso Maria, rappresentata nella parte superiore del dipinto l'''Assunzione della Vergine''.</ref>, essi gesticolano, e discorrono, scossi come da terremoto. Tutta la preparazione del Maestro, solenne nella vermiglia pala d'altare a Padova, si dissolve, si va disperdendo. (vol. IX, parte 3, pp. 815-818)
 
*Si sfoga poi {{NDR|il Romanino}} negli affreschi del Duomo di Cremona, cercando di renderci la ''Passione di Cristo''. Nel rappresentarlo ''davanti a Caifa'', pensa ai costumi variopinti dei lanzi coi cappelloni piumati, coi saioni a scacchi, più che alla divina tragedia. Ricorre anche al Dürer per comporre la scena, senza intenderne l'alto pensamento; e fa una rappresentazione greve, pesante, in un colore rosso, torrido. (vol. IX, parte 3, pp. 819-821)
 
*Ciò che non otteneva con la linea, il [[Dosso Dossi|Dosso]] tentava di ottenere mediante i colori, perfino la violenza del moto passato dalle figure alle cose. E, nonostante il cartone di Raffaello, anche più tardi, il Ferrarese, dipingendo in parte il ''San Michele'', «ex voto» di Alfonso I d'Este, [...], per il recupero della città dalle mani del Papa, non {{sic|riescì}} se non negli effetti coloristici, nei lampeggiamenti della corazza, nei contrasti di luce ed ombra, a ottenere agitazione di elementi, e, meravigliando, abbacinando, energia. (vol. IX, parte 3, p. 954)
 
*Una natura così sanguigna, come quella di Dosso Dossi, difficilmente poteva ritrarre un personaggio, segnarne i caratteri, senza forzarli, eccitarli, e, potrebbe dirsi, senza farli sudare accostandoli alle sue vampe. (vol. IX, parte 3, p. 971)
 
*Il gruppo dei quadretti con ''Sacre Famiglie'' ci ha rappresentato un pittore che viene da Dosso Dossi senza intenderlo, ma standogli appresso, logorando, nella sua pochezza, nella sua incapacità, la materia dossesca. Egli non può essere se non [[Battista Dossi|Battista di Dosso]], vissuto fra gli strumenti dell'arte del fratello, tra gli elementi pittorici ch'egli immiserisce e scompone. Di [[Raffaello Sanzio|Raffaello]] non lascia traccia; ed è a credersi che egli sia stato a Roma più per baciare i piedi alla statua di S. Pietro, che non per dipingere con Giulio Romano e il Penni, Perin del Vaga e Pellegrino da Modena. Avrà avuta una commissione del suo Duca, per dare una seccatura di più a Raffaello; ma certo egli non vide neppure la soglia del tempio pittorico dell'Urbinate. (vol. IX, parte 3, pp. 991-997)
 
*Coi suoi passaggi dalle altisonanti battute iniziali ai fiochi arpeggi lontani, la luce è per [[Lorenzo Lotto]], creatore della ''Natività'' di Venezia, quel che è la linea per [[Sandro Botticelli]] nel ''Presepe'' londinese. Gli angeli del pittore mediceo, festuche in balìa dell'aria sopra la capanna di Betlemme, sono esili come questi che si perdono nelle tenebre, verso il cielo, ove la forma è solo un barlume, un sospiro nel silenzio notturno. Così, da uno stormir d'ali angeliche nella notte trasse il suo canto di Natale Lorenzo Lotto, pittore visionario. (vol. IX, parte 4, p. 82)
 
*Mentre dall'arte di Tiziano scaturisce la doviziosa pittura di Jacopo Palma e il luminismo scenografico e costruttivo del Tintoretto, Lorenzo Lotto, con i suoi toni fusi, velati, e le quiete atmosfere {{sic|grige}} degli ultimi tempi, con la sua grazia intima e raccolta, esula da Venezia per fondare una grande stirpe pittorica in provincia: a Brescia e a Bergamo, e sancire il connubio tra Venezia e Lombardia. (vol. IX, parte 4, pp. 111-112)
 
*Il Fiorentino {{NDR|Andrea del Sarto}}, con le sue minori risorse cromatiche, il Veneto {{NDR|Lorenzo Lotto}} con l'appoggio di tutta una tradizione di colore che l'aiuta a toccare più alte {{sic|mète}}, giungono per diverse vie alla visione di forma traverso il velo atmosferico, a un accenno di pittura di macchia e d'impressione. Con scatti, che talora sembrano inspiegabili, Lorenzo Lotto, veneziano fuor della cerchia di Venezia, sensibile a ogni esterno influsso nella sua vita quasi di esule, provinciale di genio, passa da un eccessivo formalismo dovuto all'influenza raffaellesco-romana, all'estremo sforzo impressionistico del Cinquecento. Minuto quattrocentista quando era già morto Giorgione, egli raggiunse in molte sue opere tarde una libertà, una rapidità di visione, sbalorditive nel mondo stesso dominato dal Vecelio. (vol. IX, parte 4, p. 113)
 
*Il [[Benvenuto Tisi da Garofalo|Garofalo]] fu inferiore alla sua fama. Impicciolì i modelli artistici ch'ebbe intorno a sé; e così nel ricordare, decorando il Seminario ferrarese, l'occhio di cielo aperto alla mantegnesca nel soffitto d'una sala di palazzo Costabili, restrinse, ridusse, sminuì scomparti, figure, ornati. Ben presto si fece la sua convenzione, [...]; e quella convenzione mantenne quasi senza scomporsi, anche quando si trovò accanto il focoso Dosso Dossi. Rimase sempre uguale a se stesso; e le sue forme facili, antiquate, superficiali, vennero imitate e ripetute da un gran numero di piccoli seguaci. (vol. IX, parte 4, p. 312)
 
*La bizzarria del maestro senese {{NDR|[[Domenico Beccafumi]]}} divien stravaganza nella pala di ''San Paolo'' [...]. Preso dall'ossessione della grandiosità e dello scorcio, egli issa sopra una ristretta base a gradi il macchinoso e vuoto San Paolo, che regge con la destra floscia uno spadone d'eroe da burla e si puntella al piede massiccio, enorme; inturgida la flaccida forma di San Paolo caduto, con la mano sul petto in gesto melodrammatico, mentre attorno a lui altri attori di melodramma, camuffati da panciuti guerrieri romani, guardano e commentano; fa apparire in alto il gruppo della Vergine col Bambino e due Santi come in un'ancona<ref name="Ancona"/> infagottata dal baldacchino bartolomesco<ref>Nello stile di Fra Bartolomeo, detto anche Baccio della Porta (1473-1517), pittore e frate domenicano.</ref> tra gonfi angioletti; e per accrescer lo spettacolo esaspera i contrasti di macchie d'ombra tenebrose e di luci squillanti. (vol. IX, parte 5, p. 436)
 
*Nella Siena del Cinquecento, Domenico Beccafumi è certo la personalità più spiccata, e anche la più mutevole, la più capricciosa: talora dipinge come un forte impressionista moderno, talora elabora lucenti oleografie; infonde, per magica virtù di contrasti luministici, le impronte di una maestà sovrumana a qualche testa affiorante dall'ombra, o cade in svenevoli languori; precorre l'eleganza lambiccata e preziosa del Settecento, e foggia marionette di legno per i suoi teatrini di storia romana. (vol. IX, parte 5, p. 492)
 
*{{NDR|Esaminando l'''Adorazione dei Magi'' di [[Andrea Sabatini]] nella chiesa dei Gerolamini di Napoli}} [...], composta con elementare semplicità: Madonna e Bambino sopra un banco di pietra, davanti a una nicchia, San Giuseppe in piedi, con le mani incrociate sul bastone e sulle mani poggiata la testa, i re Magi e un paggio dei re. Qualche eco umbro raffaellesca risuona nelle figure giovanili, ma forse traverso [[Cesare da Sesto]]; e la Vergine e Gesù con i tondi lineamenti ristampano in forme pedestri i moduli di Leonardo, da cui deriva anche il moto istantaneo del bimbo. L'insieme è fiacco, stentato, meschino: le dinoccolate figure dei giovani, mascherette di grazia, la Vergine, sciatta e sonnolenta, contrastano col grottesco San Giuseppe, che nello sforzo d'irrigidirsi e far da pilastro tende una gamba, e guata bieco dall'alto in posa da tiranno da marionette. (vol. IX, parte 5, pp. 711-712)
 
*Il pittore ufficiale {{NDR|[[Agnolo Bronzino]], al servizio di Cosimo I de' Medici}} mise in opera tutto il suo talento, tutte le finezze delle sue figurate costruzioni, tutti i fregi, i ricami, i merletti, i tessuti più belli a gloria della corte medicea. Uscito di corte, non parve più così lustro e superbo; lasciò scorgere le sue convenzioni nei quadri chiesastici freddi e grevi. L'artificio s'impadronì dei corpi e della natura circostante, vi sparse l'acqua colata dalla ghiacciaia del Concilio di Trento e della Controriforma. (vol. IX, parte 6, pp. 69-70)
 
*Nefasto all'arte fu, in generale il [[Giorgio Vasari|Vasari]]. Egli falsa il carattere sottile e perspicace del [[manierismo]] fiorentino. Il suo atteggiamento cerebralistico non è quello di un [[Pontormo]] che si tormenta in ricerche di colore e di linea, in ardui problemi di estetica, ma è quello di un letterato che ama i temi dottrinari, di un michelangiolista che vorrebbe, senza sentirle, interpretare le passioni eroiche, e proprio meglio riesce quando, inconsciamente, rinuncia a tutto per veder nella composizione un puro gioco decorativo. Esempio le divertenti battaglie di Palazzo Vecchio. (vol. IX, parte 6, p. 372)
 
*L'eterno compromesso di colore e di forma che affligge il manierismo rende insopportabili la maggior parte delle opere di Giorgio Vasari. E solo quando l'interesse decorativo prende il sopravvento egli giunge all'arte con arditi effetti di scenografo e di caricaturista nato. (vol. IX, parte 6, p. 372)
 
*[...] da Parma, per via d'incisioni e di disegni, le eleganze del Parmigianino e le fluide sottigliezze delle sue forme forbite cominciavano a diffondersi e ad attrarre più che il tenero modellato delle correggesche. Era più facile sentire la calligrafia del Parmigianino che non l'ariosità del Correggio; e nell'Emilia prima, in Lombardia, nella Liguria, nel Veneto, per tutt'Italia poi, il raffinato maestro parmense dettò leggi alla moda pittorica. Parve che niuno potesse sottrarsi all'incanto di quel serpeggiar di linee, di quell'ondeggiare di corpi smilzi e snelli; [...]. (vol. IX, parte 6, pp. 584-586)
 
*[...] nell'Oratorio del Gonfalone a Roma, teatro della pittura manieristica, [[Lelio Orsi]] rappresentando l'''Arresto di Cristo'', par dia uno strappo a tutte le convenzioni con i suoi effetti fantasmagorici, trasportandoci in uno scenario magico, pauroso, con un paese notturno, con nubi tetre squarciate dal chiaro di luna. (vol. IX, parte 6, p. 643)
 
*La copia dell'opera del maestro {{NDR|la ''Pietà'' di Bernardino Campi<ref>Bernardino Campi (1520 – 1591), pittore italiano.</ref>, eseguita dall'allieva [[Sofonisba Anguissola]]}} è scrupolosa, fedele, ma par che Sofonisba risenta più di Bernardino l'influsso parmigianesco nelle mani affilate della Vergine, nel colore argentino, nella delicatezza del volto a punta, dei lineamenti piccini. Le ombre sono men crude; non tagliano con barbara durezza il profilo del Cristo come nel Campi; la salma s'irrigidisce, piallata come in un tronco, senza più l'impronta vitale che la flessibilità dei muscoli manteneva al prototipo. Ombre leonardesche s'agitano sul volto dell'Addolorata di Bernardino, mentre quello dipinto dalla scolara si porge alla carezza di un lume tenue e diffuso. Tutto divien più blando, più fioco. (vol. IX, parte 6, pp. 924-926)
 
====''L'architettura del Cinquecento''====
*Si assegna [...] al [[Giovanni Francesco Mormando|{{sic|Mormanno}}]] la più bella facciata di palazzo napoletano, quella del palazzo di Capua, ora Marigliano, in S. Biagio dei Librai. La facciata subì alterazioni diverse, ma, nell'insieme, come dice giustamente il Pane, «manifesta la impeccabilità di una pura equazione geometrica, come quella che è dato riscontrare nelle opere migliori del Rinascimento». Purtroppo i restauri hanno lasciato solo intravvedere qualche traccia del {{sic|Mormando}} in quello stesso palazzo e nell'altro dei duchi di Vietri, poi Corigliano. (vol. XI, parte 1, pp. 954-956)
 
*In Santa Maria della Stella alle Paparelle, edificata, per voto e con danaro proprio, dal {{sic|Mormando}}, si può vedere qualche reminiscenza bramantesca nella facciata con pilastri corinzi, scanalati sino a due terzi d'altezza, [...]. (vol. XI, parte 1, p. 956)