Marco d'Oggiono: differenze tra le versioni

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sezione Adolfo Venturi
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*Marco e Giovanni Antonio son ricordati nei manoscritti vinciani come due allievi suoi prediletti: si tratta, verosimilmente, come notò il Solmi<ref>Edmondo Solmi (1874 – 1912), storico, storico della filosofia e accademico italiano.</ref>, di Marco d'Oggiono e del [[Giovanni Antonio Boltraffio|Boltraffio]]. ([[Francesco Malaguzzi Valeri]])
 
===[[Adolfo Venturi (storico dell'arte)]]===
*Tra gli scolari più antichi di Leonardo, Marco d'Oggiono (n. 14701407?–1530), tendente al manierismo di lusso e di gran pratica, ripete, in modo pedestre, costantemente, le opere del maestro, le traduce nei proprii forti contrasti di chiaroscuro e nel proprio intenso colore. Il suo momento massimo è rappresentato dal "Salvator Mundi" della Galleria Borghese e dalla "Madonna allattante" del Museo del Louvre: opere con diligenza condotte, con i capelli delle figure lumeggiati uno ad uno, le sottili pieghe delle vesti color di rubino. La modellatura non manca di finezza, ma le teste son compresse, le mani gonfie, gli occhi sporgenti dall'orbita. ([[Adolfo Venturi (storico dell'arte)]])
 
*Marco dipinse i tre Arcangeli nella Galleria di Brera, facendo del vinciano Gabriele un vezzoso manichino; di Michele una macchinosa figura che oscura il cielo con le enormi ali distese e gli sbuffi tondeggianti del mantello; di Raffaele una grassa donzella imbarazzata nel sacco di pieghe delle vestimenta. Tra Gabriele e Raffaele è piombato Lucifero con la liscia testa di porcellana, le braccia sottili, le mani piccolette, le scure piante artigliate. L'artista già cade nella più uggiosa maniera, dimentico di proporzioni, di rapporti tra le figure e il paese, legnoso nelle figure memori del linearismo convenzionale del Civerchio<ref>Vincenzo Civerchio (1470 circa – 1544), pittore italiano.</ref>, cupreo nell'effetto di colore. ([[Adolfo Venturi (storico dell'arte)]])
 
*Nella tarda "Assunzione" della Galleria di Brera in Milano, gli Apostoli, che in terra si agitano per mirare l'Assunta in cielo, tra corone di nubi e di cherubini, non hanno più posto per muoversi; si attaccano, si accatastano, mentre i cherubini che attornian Maria con le chiocche della chioma al vento, con le gonfie vesti fasciate, volano, nuotano, cadono all'ingiù, perdon l'equilibrio. Tutto è sgangherato, tutto è come strappato a viva forza, per il grido dell'enfasi, per il tumulto degli elementi. Spentasi davanti agli occhi di Marco d'Oggiono la luce accesa dal maestro, egli s'irretì sempre più. Incapace di vedere un paese nella sua linea d'insieme, si contentò di far tutto di convenzione: paesaggio, figura umana, panneggio; cercò l'effetto nell'enfasi del gesto, nel turbinio barocco delle lucidi pieghe, nell'accesa tonalità dei colori; parve anticipare i giorni del manierismo romano, senza pur possedere la virtuosità, la forza, propria ai maggiori deguaci di Raffaello e di Michelangelo. (p. XXXII)
 
==Note==