Salvatore Minocchi: differenze tra le versioni

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Creata pagina con "'''Salvatore Minocchi''' (1869 – 1943), presbitero, storico, biblista, teologo, ebraista italiano. ==''La Genesi con discussioni critiche''== *Il caos primordiale {{NDR|nel..."
 
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*Mentre infatti per i Babilonesi, ad esempio, il Caos primordiale (''[[Tiamat]]'') era esistente ''ab aeterno'', e principio generatore degli Dei potenti a farne un cosmo, invece per gli Ebrei questo Caos (''Tehôm'') non solo era alcunché di separato e diviso da Dio – esistente per sé, al di fuori e al dispora del mondo – ma era un non ente, un che di vuoto e vano, appetto a Dio, prima che questi creasse il cosmo visibile. L'agiografo {{NDR|della ''[[Genesi]]''}} sarebbesi adontato di chi gli avesse detto che ''la terra e le acque'' di questo verso dovevano considerarsi come un'entità non creata da Dio; egli avrebbe negato ch'ei siano un'entità. (parte prima, p. 6)
*La questione degli [[Angelo|Angeli]] presentavasi particolarmente difficile e spinosa per un antico Ebreo; la sua lingua materna li chiamava infatti Dii e Figli di Dio, dedicando loro il medesimo nome del sommo unico Iddio (''[[Elohim|Elohîm]]''). Antichissime tracce di politeismo e polidemonismo semitico sopravvivevano ancora involontarie nella compagine del linguaggio, malgrado che l'idea religiosa fosse pura e perfezionata d'ogni macchia precedente; e poteva anche darsi che tracce più o meno visibili di errori teologici fossero così sopravvissute nelle tradizioni cosmogoniche. (parte prima, p. 7)
*Nel concetto cosmologico degli antichi popoli orientali (Indiani, Babilonesi, Persiani, Egiziani) [...] il ''cielo'' (ebr. ''samaím'', ''altezze'', forma anomala di plurale con apparenza di duale) consideravasi costituito da un'immensa volta di materia trasparente e durissima, come cristallo e zaffiro (Isaia, 40, 22), fondata su colonne solidissime (Job, 26, 11) quali le più alte montagne della terra, e paragonabile da un Semita alla distesa superiore della sua tenda di pelli, entro e sotto la quale egli abita (Sal. 104, 2). Questa volta fra gli Ebrei era detta ''raqîa'', ''[[firmamento]]'' [...] che a lettera si renderebbe ''esteso'', con allusione all'opera del fabbro ferraio che a colpi di maglio ''distende e lamina'' ad usi vari i pezzi di metallo grezzo e massiccio. Il ''raqîa'' è come situato fra mezzo alle acque dell'Oceano universale, che avvolge la terra e cielo, e sul quale misteriosamente cielo e terra in modo fisso e stabile possano, come un'immensa nave. Perciò una parte di esse acque resta al di sopra del cielo, e una porzione di sotto costituisce i fiumi e il mare che cinge tutto'intorno la terra. (parte prima, pp. 8-9)
*L'idea {{NDR|nella ''[[Genesi]]''}} che i pianeti e le stelle, mobili o immobili, rimanessero fissati al firmamento del cielo, come gli uomini o i palazzi alla superficie della terra, era comune ed ovvia nella scienza astronomica degli antichi popoli orientali. Ma inoltre i Babilonesi credevano, che gli astri tutti quanti fossero sede e figura di altrettanti Dii maggiori o minori, viventi analogamente agli uomini, re o sudditi, una vita divina loro propria, e fornita di una propria storia. Questa storia i Babilonesi pretendevano, per divina rivelazione, di poter narrare, e lo facevano con la serie numerosa e complicata dei loro poemi sacri mitologici, in parte giunti fino a noi e solo nell'età nostra interpretati. La vita e la storia degli dii astrali credevano i Babilonesi e in genere gli antichi popoli orientali [...] che, per il naturale dominio degli Dei sugli uomini, avesse a servire di norma e principio – il ''Fatum'' dei Greci e Latini – della vita umana, e così gli astri erano altrettanti ''segni'' astrologici della storia terrena. Non occorre meravigliarci che il sacro scrittori siasi espresso con gli imperfetti concetti scientifici del tempo suo, ma piuttosto bisogna ammirare la sapienza e prudenza con cui egli coordina tutta l'astrologia del suo secolo all'idea centrale di Dio creatore, e così la mantiene nei veri e puri limiti dell'astronomia. (parte prima, pp. 10-11)
*Per intendere poi rettamente l'espressione: ''a immagine e somiglianza'', bisogna innanzi tutto non identificarla con le sottili speculazioni filosofiche greco-latine, ma prenderla come rappresentazione di un concetto semplice ed ovvio, come ovvio è tutto il contesto, e in relazione alle idee e alla cultura degli antichi popoli orientali. Certo, la tradizione cosmogonica politeistica, per esempio fra i Babilonesi, ammetteva che l'uomo fosse stato formato a immagine e somiglianza degli Dei, inquantoché assumeva come dato di fatto che gli Dei, preesistenti all'uomo, avessero digià corpo ed anima e figura umana perfetta. Le tendenze antropomorfiche avevano così letteralmente capovolte le relazioni fra la Divinità e l'umanità. Ma questo concetto era del tutto ripudiato dalla religione dei Profeti, come trovasi pure sancita nella Genesi, la quale già concepisce Iddio come un essere spirituale, invisibile, irreproducibile in forme visibili, infinitamente superiore e diverso dal mondo. La ''somiglianza'' (che il testo non confonde con la ''uguaglianza'') consiste dunque nel principio spirituale dell'essere umano, e manifestasi esternamente, secondo lo scrittore sacro, nel dominio che per lo spirito l'uomo ottiene da Dio creatore su tutta la terra. (parte prima, p. 13)