Marcello Marchesi: differenze tra le versioni

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*Mi salvo sempre, grazie al mio istinto di ''[[conversazione]]''. (p. 8)
*Un uomo di mezza età allegro è meno ridicolo di un giovane col muso. (p. 8)
*[[Futilità|Futile]]? Strana parola. Mi fa venire in mente un fucile che spara a borotalco. A pensarci bene, un fucile così non ammazza nessuno e fa sorridere. Sì, sì, sono futile. (p. 8)
*Cambierei di nuovo mestiere. Non c'è nulla che [[ringiovanimento|ringiovanisca]] di più. Un uomo privo di esperienza è sempre giovane... (p. 9)
*Ogni nuovo libro danneggia quelli già usciti. Che rimorso, rubare un solo lettore ai classici. (p. 10)
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*Però, nel suo [[russare]], c'era tutta una gamma di rantoli, di trombonate e di stop improvvisi, quasi a commento di quanto gli risuonava intorno. (cap. XI; p. 85)
*Il lessico delle zie era vario, colorito e composito. Un montaggio di proverbi ritoccati dall'uso; di modi dialettali adattati a lontani e segreti episodi di famiglia; il finale di una storiella piccante di cui non si conosceva la prima parte; il titolo di una farsa da parrocchia; il soprannome di uno sconosciuto. A volte due versioni della stessa parola. Per esempio, gli ortaggi crudi, intinti in olio­sale­pepe, venivano chiamati "pinzimonio" alla mia presenza, e "cazz'imperio" quando io mi trovavo di là, a origliare dal buco della serratura. (cap. XI; p. 88)
*Ogni "accadimento" che mi riguardasse aveva la sua frase di corollario. Se dimenticavo di chiudere una porta alle mie spalle, la zia più vicina, continuando nelle sue faccende, gridava al vento: "Cani, ruffiani e figli di mignotte, lasciano sempre aperte le [[porta|porte]]."<br>Subito le faceva eco, dalla cucina, un'altra zia: "Che ci vuoi fare? Lui abita al [[Colosseo]]."<br>Se a tavola mi dedicavo più al companatico che allo sfilatino, s'innalzava tutt'a un tratto un coro: "Il pane è bianco, la bocca è scura, il pane è bianco, e ci ha paura."<br>Se digerivo ad alta voce, interveniva zia Esther: "All'epoca di Troia li chiamavano sospiri." (cap. XI; pp. 88-89)
*La vita fu difficile subito. Andò a parlare con l'[[elefante]] dello zoo, ma era indiano e non si capirono. Amedeo era un elefante africano, un elefante di El Alamein. Anche con il "Pulcino della Minerva" il discorso fu difficile. Era di marmo. La cosa che lo disturbava di più era lo schioppettìo delle orecchie quando le tendeva. Lo stesso rumore che si ottiene aprendo un ombrello con decisione. Aveva dei problemi; doveva mangiare, bere. Si presentò al direttore dello zoo. Gli offrirono la paga di un normale elefante: otto chili di crusca, otto di segale, due di riso, ventinove di fieno, più la paglia del giaciglio, se gli piaceva, e centocinquanta secchi di acqua al giorno. (cap. XV; p. 112)
*Fino a poco tempo fa mi riposavo con il rimorso. Mi sembrava di perder tempo, di lasciarmi sfuggire le ore come monete d'oro da una tasca bucata. Dev'essere [[Roma]] che fa quest'effetto. Qui il tempo non ha importanza, non c'è un orologio che segni un'ora giusta. Anch'io, ora, posso perdere tempo. (cap. XVII; p. 117)