Giuseppe Tomasi di Lampedusa: differenze tra le versioni

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*Aprí una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, in fondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibilmente piene di agguati, sembravano ammassi di vapori sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata attorno ai conventi come un gregge al piede dei pastori. Nella rada le navi straniere all'ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma maestosa. Il sole, che tuttavia era ben lontano dalla massima sua foga in quella mattina del 13 maggio, si rivelava come l'autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano all'arbitrarietà dei sogni. «Ce ne vorranno di Vittorî Emanueli per mutare questa pozione magica che sempre ci viene versata!». (p. 53)
*Nelle persone del carattere e della classe di don Fabrizio la facoltà di essere divertiti costituisce i quattro quinti dell'[[affetto]]. (p. 89)
*L'[[amore]] [.. Certo, l'amore.] [[Fuoco]] e fiamme per un anno, [[cenere]] per trenta. Lo sapeva lui cos'era l'amore... (p. 90)
*Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.<ref>Feltrinelli, 2013, [https://books.google.it/books?id=cbCOCgAAQBAJ&lpg=PP1&dq=&pg=PT197#v=onepage&q&f=false p. 197].</ref>
*"In [[Sicilia]] non importa far male o far bene: il peccato che noi [[siciliani]] non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il ''la''; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso." (pp. 209-210)
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*Il suono argentino e festoso si arrampicava sulle scale, irrompeva nel corridoio, si fece acuto quando la porta si aprì: preceduto dal direttore dell'albergo, svizzerotto irritatissimo di avere un moribondo nel proprio esercizio, padre Balsàmo, il parroco, entro recando sotto la [[pisside|písside]] il Santissimo custodito dall'astuccio di pelle. (p. 293)
*È meglio un [[bene e male|male]] sperimentato che un [[bene e male|bene]] ignoto.
*L'[[amore]] [...] [[Fuoco]] e fiamme per un anno, [[cenere]] per trenta.
*Finché c'è [[morte]] c'è speranza. {{NDR|Riflessioni del principe Fabrizio}}
*La facoltà di ingannare se stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri.