Salvatore Di Giacomo: differenze tra le versioni

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==''Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane''==
*Tempo già fu – quando il buon Dio, tenero dell'umana felicità, facea gravi di rosei grappoli le viti; quando [[Napoli|Partenope]], nella dolce estate, poteva dissetarsi all'acqua limpida e sana della Bolla e del Carmignano senza aver bisogno di badare al contatore; quando il sale, ammucchiato a ogni cantone, era libera preda {{sic|de'}} napoletani, che lo buttavano a manate nel ''zuffritto'' e sulle torte fumanti – tempo già fu in cui nacque, a [[Napoli]], {{sic|da'}} soliti poveri ma onesti genitori, ''[[Pulcinella|Pulcinella Cetrulo]]''. (da<ref>Da ''Il teatro'', ''Napoli: figure e paesi'', p. 15.)</ref>
*{{NDR|[[Marechiaro (Napoli)|Marechiaro]]}} La giornata era raggiante, piena di riso e di gaiezza: il mare e quella pace, deliziosa in tanta solitudine e in così profondo silenzio, sommovevano tutto un flutto d'idee. Lo spirito s'indugiava a rincorrerle tra le mille voluttà d'un quasi addormentamento. Come da un {{sic|secreto}} recesso dal cavo ombroso delle rocce che ci accoglieva contemplavamo l'uguale immensità dell'acqua, la sua sterminata superficie che, lontano lontano, a perdita di vista, raggiungeva l'arco del cielo. Una larga chiazza più azzurrina, quasi bluastra, tingeva l'acque, laggiù, sotto [[Capri]]. E vagamente appariva, con disegno quasi impreciso, l'isola tiberiana. Tutto il lontano era in una pace solenne, nell'immobilità d'uno scenario. (da ''La canzone'', p. 52.)
*{{NDR|L'uccisione di [[Masaniello]] e lo scempio del suo corpo}} Triste storia, che, peculiarmente, dimostra come il popolo napoletano, la plebe per meglio dire, non abbia mai avuto una coscienza propria: abituata a servire, s'è macchiata, in servitù, fin del sangue suo stesso. Essa ha avuto sempre lo sciagurato destino degl'ignoranti e le sue lacrime postume non hanno cancellato mai più certe crudeltà e certi delitti i quali, tuttavia, la fanno più degna di pietà che d'odio. (da<ref>Da ''Masaniello'', ''Napoli: figure e paesi'', p. 70).</ref>
*Sulle rovine della trattoria di Solla, o meglio, della sua ''pagliarella'' famosa, sugli umidi terreni delle ''Paludi'' è sorto un quartiere novello {{sic|co'}} suoi trenta colossali palazzi. Ed è venuto su davanti ai meravigliati occhi della gente di quartier [[Vicaria]] come in un racconto delle ''Mille e una notte'' sorge dalla fantasia di Sheherazade una reggia, rimpetto al palazzo d'[[Hārūn al-Rashīd|Harun–al–Rascid]]. (da<ref>Da ''Antiche taverne'', ''Luci e ombre napoletane'', p. 137).</ref>
*{{NDR|[[Via Toledo]]}} [...] la gran fiera d'ogni agitazione, il teatro d'ogni passione tumultuaria e fuggevole, la rapida scena perenne d'ogni forma della vivacità partenopea. (da<ref>Da ''Il Quarantotto'', ''Luci e ombre napoletane'', p. 144).</ref>
 
*Copioso d'assonanze e di ritmi il nostro [[dialetto napoletano|idioma]] popolare non pur seguitava, in quel secolo<ref>Il XVIII° secolo.</ref>, ad accarezzare l'orecchio, ma, con gli armonici elementi che conteneva, quasi generava in Napoli la incantevole e insigne scuola musicale che vi prosperò fino a tardi. Saporosa composizione di sentimentale e di burlesco esso s'attagliava così agl'{{sic|istromenti}} della piazza come alla delicata concordanza di due violini e di una spinetta: l'opera buffa era un poco in ogni manifestazione poetica e la nostra poesia dialettale suscitava, in {{sic|que'}} tempi, un riso spontaneo, figlio non del ragionamento o del giudizio ma di una natura espressiva. (da ''Poesia dialettale napoletana'', p. 254)
{{Int|''Evocazioni e Prose d'arte''}}
*Copioso d'assonanze e di ritmi il nostro [[dialetto napoletano|idioma]] popolare non pur seguitava, in quel secolo<ref>Il XVIII° secolo.</ref>, ad accarezzare l'orecchio, ma, con gli armonici elementi che conteneva, quasi generava in Napoli la incantevole e insigne scuola musicale che vi prosperò fino a tardi. Saporosa composizione di sentimentale e di burlesco esso s'attagliava così agl'{{sic|istromenti}} della piazza come alla delicata concordanza di due violini e di una spinetta: l'opera buffa era un poco in ogni manifestazione poetica e la nostra poesia dialettale suscitava, in {{sic|que'}} tempi, un riso spontaneo, figlio non del ragionamento o del giudizio ma di una natura espressiva. (da ''Poesia dialettale napoletana'', ''Evocazioni e prose d'arte'', p. 254)
*Il nostro dialetto, fino al trecento, era stato ''scritto''. Lo aveva posto negli atti suoi pubblici la Cancelleria della Corte Aragonese, lo avevano usato le medesime opere letterarie di quel tempo, i poemi, le cronache, i trattati: ed esso era sembrato – e fu davvero – una lingua di tutte le voci più popolari e più vivaci, sincera, spontanea, facile per ogni comune necessità e accessibile a ogni uso e a ogni persona.<br>Appresso, tutto il secolo decimoquinto s'era continuato a giovare di quel pittoresco ed efficace vocabolario: ma già esso era sceso più basso, l'accademia [[Alfonso V d'Aragona|alfonsina]] già stimolava, nel quattrocento, le più singolari intelligenze, e il [[Chariteo|Cariteo]], [[Iacopo Sannazzaro]], [[Pietro Summonte]], [[Gabriele Altilio]] avevano per le mani la cosa pubblica e le lettere a un tempo. (da ''Poesia dialettale napoletana'', p. 254)
*[...] ecco dunque il nostro dialetto che davanti a un soffio così {{sic|novo}} e così classico<ref>Il riferimento è alla prospettiva culturale dischiusa dall'Umanesimo.</ref>s'arretra a mano a mano e finalmente, dopo quasi {{sic|dugento}} anni, ripara alla fonte primitiva che lo contenne, e torna a {{sic|que'}} rivi gonfi ed aperti i quali {{sic|da'}} loro facili margini già lo avevan visto traboccare e diffondersi. Ed eccolo dunque ridiventato, nel secolo decimosesto, cosa affatto particolare e propria della plebe, cosa più umile e però quasi spregiata e oscurata, ancora, dalla nobiltà dell'opera e della voce sopravveniente.<br>Ma l'anima popolana, la quale sente sempre il bisogno di manifestarsi, s'agitò pur allora. Ella, impaziente, frugò in fondaci e vicoli e strettole; ella ne snidò, fremente, i suoi poeti sinceri – e a questa gente povera ma ingegnosa, intinta ancora d'un non so che di letterario che l'addestrava a metri armoniosi o suonanti, a questa gente che non mai aveva asceso scale di principi o di università, l'anima popolana, quasi inebriata da tanto e così onorevole conflitto, disse: {{sic|Va}}, e parla, e canta pure in mio nome! (da ''Poesia dialettale napoletana'', pp. 254-255)
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*L'arte di tutti costoro<ref>Gli artisti della Scuola di Posillipo.</ref>, è vero, fu solamente oggettiva, ma contenne seduzioni immediate. La ''macchia di colore'' che sulle piccole, piccolissime tele del Pitloo era il segno particolare delle sue impressioni istantanee, coglieva per altro tutta quanta l'animazione poetica, l'armonia delicata e misteriosa del vero, i suoi contrasti, la sua rudezza e la sua dolcezza – e così felice era sempre la scelta, così aggiustata e così nuova, che la verità naturale sembrava una meditata architettazione, e quel brano di realtà, che pur conteneva in se stesso ogni elemento armonico di colorita poesia, la creazione, addirittura, d'un artista immaginoso.<ref>Da ''Edoardo Dalbono'', p. 296.</ref>
*Nel punto in cui, davanti alla ferrea porta del vecchio Istituto di Belle Arti, Palizzi e Morelli {{sic|scotevano}} il loro labaro di verità e di rinnovazione e {{sic|riescivano}} a trargli appresso fin gli scolari più devoti agli accademici, quel qualcuno principiava la sua cara fatica, e si preparava, solitario, a divenire l'artefice incantevole e raro della più meravigliosa finzione. Poeta sensibile, artista e pittore di razza, squisito raccontatore dell'eterna favola dell'arte, questo suo genio amabile si chiamò [[Edoardo Dalbono]].<ref>Da ''Edoardo Dalbono'', pp. 297-298.</ref>
*È questo un gran canone di arte, benché semplice, e tanto spesso negletto. Senza idea non {{sic|ci è}} arte; e l'artista che rinuncia a mettere nell'opera sua la sua idea, rinuncia a metterci quello che lo fa artista; ma senza realtà non {{sic|ci è}} comunicazione possibile fra l'artista e gli altri uomini, i quali, per alzarsi fino dove l'artista vuol sollevarli a volo, non possono esser presi che per il lato umano, che è comune a loro e a lui. E nel concepimento dell'opera d'arte deve precedere il senso del reale; perché è il reale che dà la sostanza: l'ideale la purifica e la corregge mediante la forma.<ref>Da ''Una difesa del realismo'', p. 302.</ref>
*[...] il simbolismo è proprio delle religioni, e non dell'arte; e soltanto quando l'arte trova un sussidio potente nel sentimento religioso, si può con vantaggio servire del simbolo, per eccitare passioni e sentimenti.<ref>Da ''Una difesa del realismo'', p. 302.</ref>
*{{NDR|Su [[Vincenzo Gemito]]}} Guardate il ritratto di [[Mariano Fortuny y Madrazo|Fortuny]], guardate quelli del [[Domenico Morelli (pittore)|Morelli]] e del [[Giuseppe Verdi|Verdi]], e vi cercherete invano le linee determinate, il segno preciso e scolastico, l'insistenza, l'incasso palese dell'occhio, l'osservativo scrupolo di quei dati somatici che sono dei più studiati e accarezzati dalla plastica, intransigente, freddo, se pur limpido specchio dell'essere. Eppur nulla è più appariscente e più vivo di quel viluppo che sembra oscuro e non è; nulla è più parlante, nulla è più fuso e più molle, e da nessuna cosa mai come da queste, che vogliono essere la reincarnazione d'una persona, si parte come un respiro, un caldo soffio di vitalità.<ref>Da ''Vincenzo Gemito'', p. 307.</ref>