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*Era un leader complesso. Era al tempo stesso stalinista e antistalinista, un comunista convinto e un cinico, un pusillanime dedito all'autoincensamento e uno scontroso filantropo, un guastafeste e un pacificatore, un collega stimolante e un fastidioso tiranno, un uomo di Stato e un politico privo di spessore intellettuale. Le sue contraddizioni erano il risultato di una personalità straordinaria e di una vita di esperienze fuori dal comune.<br>Eppure si deve anche riconoscere che le sue eccentricità erano anche dovute alle enormi e conflittuali pressioni su di lui. Contrariamente ai suoi successori, voleva cercare una risposta con soluzioni a lungo termine. Ma le soluzioni tentate non bastavano a rinnovare il tipo di Stato e di società che aveva abbracciato. Le riforme erano attese da lungo tempo. I suoi successi politici, economici e culturali erano un grande miglioramento rispetto a Stalin. Ma non rispondevano più alle necessità del paese. (Parte terza, cap. XVIII, p. 396)
 
*[[Eduard Shevardnadze|Eduard Ševardnadze]] rimase l'unico componente non slavo dell'organismo dirigente. Il Politburo in pratica era un club di slavi. (Parte quarta, cap. XXIII, p. 479)
*{{NDR|Sulla [[dissoluzione dell'Unione Sovietica]]}} Cadeva nell'oblio uno Stato che aveva provocato tremori politici all'estero sin dalla sua creazione negli anni venti. Uno Stato i cui confini erano approssimativamente gli stessi di quelli dell'Impero russo e la cui popolazione abbracciava uno spropositato numero di nazionalità, religioni e concezioni del mondo. Uno Stato che aveva costruito una potente struttura industriale negli anni trenta e che aveva sconfitto la Germania nella seconda guerra mondiale. Uno Stato che diventò una superpotenza in grado di eguagliare gli Stati Uniti quanto a capacità militare alla fine degli anni settanta. Uno Stato il cui ordine politico ed economico aveva incarnato una categoria cruciale nel lessico del pensiero del XX secolo. Dagli inizi del 1992, questo Stato non esisteva più. (Parte quarta, cap. XXVI p. 532)
 
*{{NDR|Sulla [[dissoluzione dell'Unione Sovietica]]}} Cadeva nell'oblio uno Stato che aveva provocato tremori politici all'estero sin dalla sua creazione negli anni venti. Uno Stato i cui confini erano approssimativamente gli stessi di quelli dell'Impero russo e la cui popolazione abbracciava uno spropositato numero di nazionalità, religioni e concezioni del mondo. Uno Stato che aveva costruito una potente struttura industriale negli anni trenta e che aveva sconfitto la Germania nella seconda guerra mondiale. Uno Stato che diventò una superpotenza in grado di eguagliare gli Stati Uniti quanto a capacità militare alla fine degli anni settanta. Uno Stato il cui ordine politico ed economico aveva incarnato una categoria cruciale nel lessico del pensiero del XX secolo. Dagli inizi del 1992, questo Stato non esisteva più. (Parte quarta, cap. XXVI, p. 532)
 
*I costi del potere sovietico superavano di gran lunga i suoi benefici. Lo Stato di Lenin e di Stalin brutalizzò la politica in Russia per decenni. È vero che i comunisti fecero enormi passi in avanti in economia e in campo sociale rispetto a quelli compiuti da Nicola II; ma è anche vero che rafforzarono certe caratteristiche dello zarismo che avevano proclamato di voler estirpare. Crebbe l'odio tra le differenti nazionalità. Si approfondì l'alienazione politica e diminuì il rispetto sociale per la legge. La dittatura frantumò inoltre la società in tanti piccoli segmenti e spazzò via tutte le forme associative che si opponevano alla volontà dello Stato centrale. Il risultato fu una massa di cittadini intimiditi cui poco interessava il benessere dei vicini di casa. L'egoismo divenne ancor più endemico di quanto non avvenga nel capitalismo. E quando lo Stato era arrivato a un passo dal divorare il resto della società, divenne meno efficiente nello stimolare la cooperazione alle sue politiche. In breve, esso fallì nel suo tentativo di integrare la società cercando di impedire che la società realizzasse da sola la sua integrazione. (Parte quarta, cap. XXVII pp. 573-574)