Salvatore Di Giacomo: differenze tra le versioni

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*Il nostro dialetto, fino al trecento, era stato ''scritto''. Lo aveva posto negli atti suoi pubblici la Cancelleria della Corte Aragonese, lo avevano usato le medesime opere letterarie di quel tempo, i poemi, le cronache, i trattati: ed esso era sembrato – e fu davvero – una lingua di tutte le voci più popolari e più vivaci, sincera, spontanea, facile per ogni comune necessità e accessibile a ogni uso e a ogni persona.<br>Appresso, tutto il secolo decimoquinto s'era continuato a giovare di quel pittoresco ed efficace vocabolario: ma già esso era sceso più basso, l'accademia [[Alfonso V d'Aragona|alfonsina]] già stimolava, nel quattrocento, le più singolari intelligenze, e il [[Chariteo|Cariteo]], [[Iacopo Sannazzaro]], [[Pietro Summonte]], [[Gabriele Altilio]] avevano per le mani la cosa pubblica e le lettere a un tempo. (da ''Poesia dialettale napoletana'', p. 254)
*[...] ecco dunque il nostro dialetto che davanti a un soffio così {{sic|novo}} e così classico<ref>Il riferimento è alla prospettiva culturale dischiusa dall'Umanesimo.</ref>s'arretra a mano a mano e finalmente, dopo quasi {{sic|dugento}} anni, ripara alla fonte primitiva che lo contenne, e torna a {{sic|que'}} rivi gonfi ed aperti i quali {{sic|da'}} loro facili margini già lo avevan visto traboccare e diffondersi. Ed eccolo dunque ridiventato, nel secolo decimosesto, cosa affatto particolare e propria della plebe, cosa più umile e però quasi spregiata e oscurata, ancora, dalla nobiltà dell'opera e della voce sopravveniente.<br>Ma l'anima popolana, la quale sente sempre il bisogno di manifestarsi, s'agitò pur allora. Ella, impaziente, frugò in fondaci e vicoli e strettole; ella ne snidò, fremente, i suoi poeti sinceri – e a questa gente povera ma ingegnosa, intinta ancora d'un non so che di letterario che l'addestrava a metri armoniosi o suonanti, a questa gente che non mai aveva asceso scale di principi o di università, l'anima popolana, quasi inebriata da tanto e così onorevole conflitto, disse: {{sic|Va}}, e parla, e canta pure in mio nome! (da ''Poesia dialettale napoletana'', pp. 254-255)
*[...] ''Con l'aiuto che Dio ci manda dal Cielo noi ci sforzeremo di dar giovamento al parlare delle genti volgari''. Questo egli {{NDR|[[Dante]]}} disse, quando {{sic|pel}} primo, e con la divinatrice mente che rivolse pur alle prime questioni filologiche, andò radunando, e raccogliendo e sceverando ogni più sparso suono perché, come quasi stillati e mescolati, essi componessero per la nostra lingua armoniosa una concorde e sonora melodia.<br>E questo io ripeto ancora non perché già non numeri nella lingua nostra secoli di affermazione gloriosa e non abbia dato nitidi e vaghissimi attestati, ma appunto per osare di credere che da tanta ricchezza non sia per essere spregiata, ancor oggi, una dimessa voce, la quale pur offerse all'Italia la più antica {{sic|pruova}} di sé: una voce che serbò quasi intatto il suo suono e che se ne vuol giovare, agli anni nostri, per dir cose che pur appartengono alla Verità e alla Vita. (da ''Poesia dialettale napoletana'', p. 257)
*{{NDR|Gli [[Scavi archeologici di Pompei]]}} All'archeologo, all'artista, al frettoloso ''touriste'' questo spettacolo non cessa, sì, di offrire, ogni volta che n'è interrogato, la svariata quantità e qualità de' suoi particolari, materia di studio e conoscenza dell'antico, materia di raro allettamento estetico, d'insospettata e immensa sorpresa. Ma, quasi antevedendo tali future esplorazioni e le mille e mille insaziate interrogazioni onde sarebbero stati oggetto quelle mura superstiti, questi incliti edifici, queste case stesse di cui si continua a frugare ogni giorno la più riposta intimità, l'ospite filosofico di tanti gaudenti e spensierati suoi commensali non ha voluto forse lasciare scritta sulla parete del suo triclinio, come un freddo monito, la frase secca e definitiva che or io leggo con un sussulto, da che mi pare che risponda alla segreta, peripatetica domanda che mi sono rivolta poco fa? ''Fugge il [[tempo]], e non merita fede. Perisce ogni cosa, e tante volte neppur ne rimane il ricordo. Il futuro è un mistero. E tu non confondere la tua esistenza con cercare di conoscerlo...''<ref>Da ''La via dell'abbondanza'', p. 258.</ref>
*{{NDR|Via dell'Abbondanza nell'antica Pompei}} Chi consideri questa strada pittoresca da' policromi aspetti delle sue due pareti – quasi ininterrottamente istoriate, disseminate di figure grandi e di figurette assai gentilmente e argutamente dipinte, di indicazioni e chiarimenti ai passanti, di additazioni di candidati a pubblici offici, di salaci motti popolareschi perfino – la potrà, se mai, paragonare a una di quelle folte viuzze giapponesi ove tutto è luce e colore; ove, di su le botteghe infronzolite, pendono le più immaginose leggende illustrate; ove panneggiamenti e arazzetti e banderuole e fanali multicolori allungano festosamente la lor bizzarra infilata fino al punto in cui pare che, nel lontano, la via si restringa e si concluda.<br>Immaginate, rivestendo con la vostra riarchitettazione opportuna tutto quel che ora è presso che spogliato e ripopolando questa via, così frequentata una volta, delle figure umane che vi passavano, immaginate, dunque, quel traffico, quel viavai, quel continuato riempirsi e svuotarsi di questa principale arteria della felice ''Colonia Venerea'', e la coglierete nel suo ritmo più pulsante e sonoro.<ref>Da ''La via dell'abbondanza'', pp. 259-260.</ref>