Salvatore Di Giacomo: differenze tra le versioni

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*{{NDR|L'uccisione di [[Masaniello]] e lo scempio del suo corpo}} Triste storia, che, peculiarmente, dimostra come il popolo [[Napoli|napoletano]], la plebe per meglio dire, non abbia mai avuto una coscienza propria: abituata a servire, s'è macchiata, in servitù, fin del sangue suo stesso. Essa ha avuto sempre lo sciagurato destino degl'ignoranti e le sue lacrime postume non hanno cancellato mai più certe crudeltà e certi delitti i quali, tuttavia, la fanno più degna di pietà che d'odio. (da ''Masaniello'', p. 70)
*Copioso d'assonanze e di ritmi il nostro [[dialetto napoletano|idioma]] popolare non pur seguitava, in quel secolo<ref>Il XVIII° secolo.</ref>, ad accarezzare l'orecchio, ma, con gli armonici elementi che conteneva, quasi generava in Napoli la incantevole e insigne scuola musicale che vi prosperò fino a tardi. Saporosa composizione di sentimentale e di burlesco esso s'attagliava così agl'{{sic|istromenti}} della piazza come alla delicata concordanza di due violini e di una spinetta: l'opera buffa era un poco in ogni manifestazione poetica e la nostra poesia dialettale suscitava, in {{sic|que'}} tempi, un riso spontaneo, figlio non del ragionamento o del giudizio ma di una natura espressiva. (da ''Poesia dialettale napoletana'', p. 254)
*Il nostro dialetto, fino al trecento, era stato ''scritto''. Lo aveva posto negli atti suoi pubblici la Cancelleria della Corte Aragonese, lo avevano usato le medesime opere letterarie di quel tempo, i poemi, le cronache, i trattati: ed esso era sembrato – e fu davvero – una lingua di tutte le voci più popolari e più vivaci, sincera, spontanea, facile per ogni comune necessità e accessibile a ogni uso e a ogni persona.<br>Appresso, tutto il secolo decimoquinto s'era continuato a giovare di quel pittoresco ed efficace vocabolario: ma già esso era sceso più basso, l'accademia [[Alfonso V d'Aragona|alfonsina]] già stimolava, nel quattrocento, le più singolari intelligenze, e il [[Chariteo|Cariteo]], [[Iacopo Sannazzaro]], [[Pietro Summonte]], [[Gabriele Altilio]] avevano per le mani la cosa pubblica e le lettere a un tempo. (da ''Poesia dialettale napoletana'', p. 254)
*{{NDR|Nel XV° secolo}} [...] ecco dunque il nostro dialetto che davanti a un soffio così {{sic|novo}} e così classico<ref>Il riferimento è alla prospettiva culturale dischiusa dall'UmnesimoUmanesimo.</ref>s'arretra a mano a mano e finalmente, dopo quasi {{sic|dugento}} anni, ripara alla fonte primitiva che lo contenne, e torna a {{sic|que'}} rivi gonfi ed aperti i quali {{sic|da'}} loro facili margini già lo avevan visto traboccare e diffondersi. Ed eccolo dunque ridiventato, nel secolo decimosesto, cosa affatto particolare e propria della plebe, cosa più umile e però quasi spregiata e oscurata, ancora, dalla nobiltà dell'opera e della voce sopravveniente.<br>Ma l'anima popolana, la quale sente sempre il bisogno di manifestarsi, s'agitò pur allora. Ella, impaziente, frugò in fondaci e vicoli e strettole; ella ne snidò, fremente, i suoi poeti sinceri – e a questa gente povera ma ingegnosa, intinta ancora d'un non so che di letterario che l'addestrava a metri armoniosi o suonanti, a questa gente che non mai aveva asceso scale di principi o di università, l'anima popolana, quasi inebriata da tanto e così onorevole conflitto, disse: {{sic|Va}}, e parla, e canta pure in mio nome! (da ''Poesia dialettale napoletana'', pp. 254-255)
 
*{{NDR|Gli [[Scavi archeologici di Pompei]]}} All'archeologo, all'artista, al frettoloso ''touriste'' questo spettacolo non cessa, sì, di offrire, ogni volta che n'è interrogato, la svariata quantità e qualità de' suoi particolari, materia di studio e conoscenza dell'antico, materia di raro allettamento estetico, d'insospettata e immensa sorpresa. Ma, quasi antevedendo tali future esplorazioni e le mille e mille insaziate interrogazioni onde sarebbero stati oggetto quelle mura superstiti, questi incliti edifici, queste case stesse di cui si continua a frugare ogni giorno la più riposta intimità, l'ospite filosofico di tanti gaudenti e spensierati suoi commensali non ha voluto forse lasciare scritta sulla parete del suo triclinio, come un freddo monito, la frase secca e definitiva che or io leggo con un sussulto, da che mi pare che risponda alla segreta, peripatetica domanda che mi sono rivolta poco fa? ''Fugge il [[tempo]], e non merita fede. Perisce ogni cosa, e tante volte neppur ne rimane il ricordo. Il futuro è un mistero. E tu non confondere la tua esistenza con cercare di conoscerlo...''<ref>Da ''La via dell'abbondanza'', p. 258.</ref>
*{{NDR|Via dell'Abbondanza nell'antica Pompei}} Chi consideri questa strada pittoresca da' policromi aspetti delle sue due pareti – quasi ininterrottamente istoriate, disseminate di figure grandi e di figurette assai gentilmente e argutamente dipinte, di indicazioni e chiarimenti ai passanti, di additazioni di candidati a pubblici offici, di salaci motti popolareschi perfino – la potrà, se mai, paragonare a una di quelle folte viuzze giapponesi ove tutto è luce e colore; ove, di su le botteghe infronzolite, pendono le più immaginose leggende illustrate; ove panneggiamenti e arazzetti e banderuole e fanali multicolori allungano festosamente la lor bizzarra infilata fino al punto in cui pare che, nel lontano, la via si restringa e si concluda.<br>Immaginate, rivestendo con la vostra riarchitettazione opportuna tutto quel che ora è presso che spogliato e ripopolando questa via, così frequentata una volta, delle figure umane che vi passavano, immaginate, dunque, quel traffico, quel viavai, quel continuato riempirsi e svuotarsi di questa principale arteria della felice ''Colonia Venerea'', e la coglierete nel suo ritmo più pulsante e sonoro.<ref>Da ''La via dell'abbondanza'', pp. 259-260.</ref>