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*Tutti i dirigenti bolscevichi erano convinti assertori dello Stato monopartitico e monoideologico, dell'arbitrio legalizzato e della violenza come legittimi strumenti di governo, del centralismo amministrativo. Ne Lenin né gli altri dirigenti bolscevichi usavano questi termini, ma con le parole e i fatti mostravano il loro impegno. L'ipotesi che l'ordine bolscevico sarebbe stato più umano se Lenin non fosse morto è difficilmente conciliabile con questa gamma di principi affermatisi col [[bolscevismo]]. (Parte prima, cap. VIII, p. 176)
 
*Stalin riconosceva di non poter dominare solo con il terrore, e cercava sistematicamente il consenso delle varie élite nel governo, nel parito, nell'esercito e nella polizia segreta. I privilegi e il potere dei funzionari vennero confermati e la dignità delle istituzioni accresciuta. Mantenendo la distanza fra governanti e governati, Stalin sperava di prevenire lo scoppio dell'opposizione popolare. Per di più, cercava di accrescere il suo rapporto personale con l'etnia russa rafforzando una forma di nazionalismo russo insieme al marxismo-leninismo, e coltivava la propria immagine di capo la cui posizione al timone dello Stato sovietico era vitale per la sicurezza militare del paese e per il suo sviluppo economico. (Parte terza, cap. XVI, p. 336)
 
*Fra i popoli dell'Urss si sforzava di identificare se stesso con l'etnia russa. In privato parlava la sua lingua madre con quelli della sua cerchia che venivano dalla [[Georgia]]; e anche la sua defunta moglie Nadežda Allilueva aveva antenati georgiani. Organizzava le sue cene con un'ospitalità georgiana (anche se questa non prevedeva il lancio di pomodori sugli invitati come a volte accade). Ma pubblicamente le sue origini lo imbarazzavano dopo una guerra che aveva rafforzato la coscienza di sé e l'orgoglio dei russi. E la sua biografia faceva allusione solo una volta alla nazionalità di suo padre. (Parte terza, cap. XVI, p. 337)
 
*Tutti i gruppi nazionali soffrivano, ma alcuni soffrivano più degli altri. Le culture di Estonia, Lettonia e Lituania - che erano state solo recentemente riconquistate - vennero distrutte. Lo stesso accadde ai moldavi di lingua rumena; nel loro caso, persino la lingua venne fatta a pezzi: dapprima fu fornita di un alfabeto cirillico poi il suo vocabolario dovette prendere a prestito parole russe, in modo da distinguerlo fortemente da quello rumeno. La lingua ucraina veniva insegnata sempre meno ai bambini di lingua madre ucraina nella Rsfr. Ancora più sinistra fu l'esperienza di un filologo che fu imprigionato solo per aver constatato che alcune lingue ugro-finniche avevano più declinazioni del russo. La storiografia divenne anche più imperialista. Šamil, il capo della ribellione del Caucaso settentrionale contro lo zarismo nel XIX secolo, venne dipinto inequivocabilmente come un reazionario. Chiunque, vivo o morto, da tempo immemorabile, si fosse opposto allo Stato russo era passabile di denuncia. (Parte terza, cap. XVI, p. 338)
 
*La sua versione dell'identità nazionale russa era una miscela talmente particolare di tradizioni da risultare virtualmente una sua invenzione. La quintessenza della Russia, per Stalin, era semplicemente un catalogo delle sue personali predilezioni: militarismo, xenofobia, industrialismo, urbanesimo e gigantomania. (Parte terza, cap. XVI, p. 340)
 
*La persecuzione degli scienziati era accompagnata dalla continua promozione di personaggi eccentrici. Negli anni quaranta {{NDR|del Novecento}}, lo pseudo scienziato [[Trofim Denisovič Lysenko|Lysenko]] sostenne di aver sviluppato germogli di grano che potevano crescere all'interno del Circolo polare artico. Le sue maniere burbere attraevano Stalin. Il risultato fu il disastro della biologia professionale: qualsiasi rifiuto di piegarsi alle ipotesi di Lysenko veniva punito con l'arresto. (Parte terza, cap. XVI, p. 340)
 
*{{NDR|Su ''[[Ivan il Terribile (film)|Ivan il Terribile]]''}} Secondo Stalin, Ejzenštejn non aveva sottolineato abbastanza che il terrore dello zar Ivan contro l'aristocrazia era giustificato; invitò Ejzenštejn a «mostrare che era necessario essere spietati». Il regista intimidito - soffriva già di un disturbo cardiaco cronico - chiese maggiori dettagli; ma Stalin rispose soltanto, con falsa modestia: «Non le sto dando delle istruzioni, esprimo solo i commenti di uno spettatore». Ejzenštejn fu profondamente spaventato da questa conversazione. Morì pochi mesi dopo. (Parte terza, cap. XVI, p. 341)
 
*{{NDR|Su [[Nikita Sergeevič Chruščёv]]}} I suoi colleghi notarono il paradosso che il politico che denunciava il culto dell'individuo fosse all'incessante ricerca di prestigio personale. Non passava giorno senza che la sua foto apparisse sui giornali. (Parte terza, cap. XVII, p. 369)
 
*Assaporò la grandezza dell'autorità suprema dalla metà degli anni cinquanta ed era deliziato quando suo nipote gli chiedeva: «Nonno, chi sei? Lo zar?». Gli piacevano anche la vodka e le barzellette volgari e scoppiava in rozzi scatti d'ira. Un segretario del partito più attento non avrebbe detto ai politici occidentali: «Vi seppelliremo!». E nessun leader sovietico del 1960 avrebbe battuto una scarpa sul proprio banco alle Nazioni Unite per interrompere un discorso del primo ministro Harold Macmillan. Durante il suo periodo al potere, si divertiva moltissimo. Adorava i regali e riceveva scienziati nella sua dacia. Pur non essendo mai stato un grande lettore, chiedeva ad autori famosi di leggergli le loro opere ad alta voce. Si riteneva un pensatore con inclinazioni pratiche. (Parte terza, cap. XVII, pp. 370-371)
 
*Aveva una personalità eccentrica e autoritario. Eppure le sue parziali riforme dell'ordine sovietico erano probabilmente il massimo che i suoi stretti collaboratori e il resto dei gruppi dirigenti avrebbero allora tollerato. I sostenitori dell'ordine esistente erano troppo potenti, abili e sicuri per qualsiasi altra trasformazione più radicale. (Parte terza, cap. XVII, p. 376)
 
*Questo fautore del comunismo in realtà non avrebbe mai accettato l'egualitarismo comunista ed era così abituato ai lussi della sua carica che era incapace di riconoscere la propria ipocrisia. (Parte terza, cap. XVIII, p. 392)