I promessi sposi: differenze tra le versioni
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*Il romanzo storico, come lo concepiva Manzoni, non ci è qui, ed è bene che non ci sia. Ci è invece il vero romanzo storico, quale glielo fa incontrare il suo squisito senso d'artista. La storia è qui non la sostanza o lo scopo, ma la larga base, di dentro dalla quale esce alla luce la statua del pensiero e dell'immaginazione, una base non segregata e indipendente come un piedistallo, ma vera causa generatrice, il fondamento e il motivo occulto che mette in moto gl'inconsapevoli attori. Onde nasce quella fusione armonica della composizione, che desideri nelle sue tragedie storiche, dove la storia è dessa la sostanza e lo scopo, e rigetta dal suo seno ideali estranei invocati dall'immaginazione.
*Ne' ''Promessi Sposi'' linguaggio e stile non è costruito a priori, secondo modelli o concetti. L'è conseguenza di un dato modo di concepire, di sentire e d'immaginare. Lo stile è la combinazione delle due forze che aveva lo scrittore in così alto grado, la virtù analitica e la virtù immaginativa. Uso a decomporre, a distinguere, ad allogare secondo una certa misura o limite interno, che non è altro se non il senso del vero, l'espressione è sempre precisa e giusta, cioè vera, ed è insieme semplice, perché l'interna misura esclude ogni esagerazione ed ogni complicazione. Tutto è a posto, e tutto è nel suo limite; niente v'è di sì complesso, che non sia distinto e semplicizzato; perciò tutto è vero e tutto è semplice.
===[[Salvatore Silvano Nigro]]===
*Il paradigma lavora dentro i ''I promessi sposi''. Borsieri aveva presentato il Duomo di Milano come un'"artificiale montagna di sasso". La similmontagna si biblicizza subito in Manzoni, che le "pietre" di Dio contrappone ai "mattoni" dell'uomo; e la grandiosità della natura oppone alla "superbia" dell'ingegneria umana. L'occhio del montanaro Renzo si è educato alla contemplazione delle "alture di Dio"; ma a Milano è costretto a confrontarsi con l'"ottava meraviglia". Isola quindi la "macchina" dell'uomo. E la città diventa una scena vuota, ampia di solitudine. Dentro il metafisico deserto del perimetro urbano si alza l'umana superfetazione, fronteggiata, sulla linea dell'orizzonte, dalle dentaie del Resegone...
*Il Seicento del ''Fermo e Lucia'' ha una forte rilevatura barbarica. Di tipo tragico. E ancora nella lettera del ''Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia'' (1822): "[...] salvare una moltitudine dalle ugne atroci delle fiere barbariche". Di "unghie" e "sozzi artigli", che graffiano l'aria, il romanzo è stipato; come pure di varie "fiere": tanto che la stessa Lucia è "bella fera". La società è divisa in "facinorosi" e in "circospetti": bracchi e pernici; in cacciatori (talvolta leggiadri) e lepri; in uccellacci e uccellini; in diavoli incarnati e prede. Tutto il romanzo è una caccia all'uomo, crudele e barbarica. Che in parte sopravvive nei ''Promessi sposi'', ma nella superiore dimensione del "patire" dell'[[Alessandro Manzoni|adelchiano]] "[...] far torto o patirlo [...]" (V,7,52); e di una feroce forza che “il mondo possiede” (V,7,52-53). La morale della Chiesa “comanda di patire piuttosto che di farsi colpevole", dice Manzoni. E il principio viene indegnamente tradotto da don Abbondio, nel suo idioletto della paura: "Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza".
*La [[scrittura]] è un metter nero su bianco, che impegna "così... dalla vita alla morte". Con la "gestuosa arte de' cenni" (ampiamente frequentata dalla trattatistica del Seicento, ed evocata da [[Manzoni]] nell'apertura del capitolo VI del primo tomo del ''Fermo e Lucia'') condivide la qualità visibile della "muta favella": altro non è infatti, la scrittura, che un conversar "sulla carta [...] con parole mute, fatte d'inchiostro". Carta, penna e calamaio sono gli emblemi dell'"applicazione studiosa". Sono gli strumenti "del miglioramento umano" e della "coltura pubblica"; se per loro tramite si riversa nella società la scienza attiva di una [[biblioteca]], come quella ambrosiana fondata da [[Federico Borromeo]] per confondere l'"ignorantaggine" e l'"inerzia" di un secolo capzioso agitato da malestri e turpitudini...
*La storia è un "immenso pelago di errori". La denuncia veniva dall'illuminismo giuridico. E da ''Dei delitti e delle pene'' di [[Cesare Beccaria]], in particolare. Tutti gli errori, [[Manzoni]] compendia nella storia morale e politica del Seicento: l'incertezza del diritto, la legislazione eccessivamente proliferante che a colpi di gride sopporta l'arbitrio dei potenti e la manipolazione dei causidici, l'impunità organizzata delle classi e delle consorterie (e persino della Chiesa), la cultura economica irresponsabile e monopolistica (che blocca la libera concorrenza e impone la demagogia del prezzo politico), la persecuzione dell'onestà disarmata. Il romanzo di Manzoni aggredisce l'errore nei suoi punti di perversione. Con sdegno, senz'altro. Ma anche con compassione: "[...] la morale cattolica rimuove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini".
==Note==
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