Ermanno Ferrero

storico e archeologo italiano (1855-1906)

Ermanno Ferrero (1855 – 1906), storico e archeologo italiano.

Ermanno Ferrero

Dei libertini

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  • Fin dai primi tempi gli abitanti di Roma erano divisi in genti; ogni gente si suddivideva in famiglie fra loro unite da legami di sangue, da vincoli religiosi, da obblighi e da consuetudini particolari. La forza delle antiche genti patrizie era specialmente costituita dai numerosi clienti. Erano costoro per lo più poveri e deboli che cercavano riparo presso un capo di famiglia, il quale loro diveniva patrono, si obbligava di proteggerli ed era stretto verso i medesimi da doveri speciali. Ma il cliente doveva a sua volta onorare e rispettare il patrono e adempiere ad obblighi determinati verso il medesimo. (p. 7)
  • L'istituzione della clientela si perde nella notte dei tempi, è coeva agli incunaboli di Roma e intorno ad essa scrissero dottissime pagine alcuni fra coloro che nei due ultimi secoli con istudii critici, severi e profondi tentarono di diradare la folta caligine che copre i primordii della città eterna. Non è qui il luogo di ripetere queste erudite ed ingegnose teoriche; ci basterà ricordare che gli schiavi manomessi ed i loro discendenti concorsero pure senza dubbio ad accrescere il numero dei clienti, giacché tra i doveri del liberto troviamo tutti quelli del cliente, e lo stesso nome di patrono serve a designare il protettore di entrambi. (p. 7)
  • Il libertino uscendo dalla schiavitù si trovava senza famiglia. La legge romana, consentanea ai suoi crudeli principii verso gli schiavi, non riconosceva le cognazioni derivanti dall'unione sessuale di costoro, indicata col nome di contubernio. Era legittima solo la moglie che il libertino conducesse dopo la manomissione, erano legittimi solo i figli natigli dopoché era libero. Con esso pertanto principiava una nuova famiglia la quale, nella condizione delle famiglie dei clienti, veniva ad accrescere ed a rinforzare la gente del patrono. (pp. 7-8)
  • Il liberto doveva al patrono riverenza, e quindi non poteva contro lui, né contro gli ascendenti ed i discendenti del medesimo ricorrere in giudizio senza il consentimento del pretore. Il liberto aveva l'obbligo di alimentare in caso di bisogno il patrono, i genitori ed i discendenti di costui, di soccorrerlo con danaro, ove questi fosse colpito da sciagura o da pena pecuniaria, ed era in certe circostanze chiamato all'amministrazione dei beni ed alla tutela dei figli del patrono. Al patrono poi spettava la facoltà di punire il liberto che non adempiesse a siffatti doveri, ed altre speciali disposizioni [...]. (pp. 9-10)
  • L'uccisione del patrono commessa dal liberto era uguagliata alle uccisioni dei prossimi congiunti, per le quali era stabilita la pena di morte dalla lex Cornelia de sicariis et veneficiis, le cui disposizioni furono confermate dalla lex Pompeia de parricidiis. (p. 10)

Della vita e degli scritti di Ercole Ricotti

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  • [Ercole Ricotti] Fin dal settimo anno cominciò in lui ardentissima la smania del leggere; quanti libri in casa e fuori venivangli tra le mani avidamente divorava, anche se di teologia o di medicina, anche Dante senza commenti. Da sé cominciò ad imparare il francese, senza aiuto di grammatica e di dizionario, ingegnandosi d'intendere il Candido del Voltaire, del quale scrittore piacevagli sommamente allora e piacquegli anche più tardi la romanzesca Storia di Carlo XII; libri preferiti in quelle furiose ed arruffate letture il Robinson Crusoe e Plutarco, non le vite piene di strepitosi trionfi, ma quelle degl'integri e degli austeri, di Aristide, di Focione, di Fabio, di Catone. (cap. I, p. 314)
  • Un libro di memorie della propria vita, scritto dal Ricotti negli ozii della campagna nel 1875, fu per desiderio suo e dei congiunti destinato alla stampa dopo la sua morte. [...].
    Scrivere la propria vita, anche volendo che il libro sia opera postuma, è cosa immodesta se la vita dello scrittore non merita che altri spenda il tempo a leggerla; peggior cosa se l'autobiografia ebbe altri fini che la narrazione sincera dei proprii fatti. Ma la vita del Ricotti, come vita di un uomo di studio in un periodo notevole della storia civile e letteraria del Piemonte e dell'Italia, come vita di un uomo, che, se non cooperò largamente, ebbe tuttavia qualche parte alle pubbliche faccende nel nostro risorgimento, e sopra tutto come vita da aggiungere ai confortanti esempii del volere è potere, è una vita, che si legge con diletto non solo, ma anche con profitto. (cap. IX, p. 395)
  • L'animo del Ricotti si ribellava alle volgari compiacenze; si sdegnava nel vedere uomini mediocri usurpare fama nella scienza e nella politica. Altri sarebbe andato innanzi per il proprio cammino con un amaro sorriso sulle labbra e il disgusto nel cuore: egli sentiva prepotente il bisogno di sfogare questo disgusto, di stendere là mano a sfrondare allori non conquistati con la fatica e col merito. Questi sfoghi potevano forse trarre in inganno sull'indole del Ricotti chi non conoscevalo da vicino; ma chiunque ebbe dimestichezza con lui sa com'egli s'inchinava al vero merito, a questo voleva si largissero lodi e onori, s'adoprava, per quanto stava in lui, a procacciarli, ed era pieno di contentezza quando riusciva nel suo desiderio. (cap. IX, p. 396)

Bibliografia

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