Emma Boghen Conigliani

scrittrice e critica letteraria (1866-1956)

Emma Boghen Conigliani (1866 – 1956), scrittrice, traduttrice e critica letteraria italiana.

La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi

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La marchesina Adelaide Antici aveva diciannove anni quando nel 1797 diede la sua mano al conte Monaldo Leopardi, di due anni soltanto maggiore di lei. Il matrimonio fu celebrato a Recanati, nella cappelletta degli Antici: la sposa, che apparteneva ad una delle più nobili e ragguardevoli famiglie di quella città ed entrava in una famiglia altrettanto nobile e ragguardevole, era una fanciulla di bellezza severa, da gli occhi di zaffiro splendidi e intelligenti, benché velati da una pensosa malinconia; dai corti capelli ricciuti d'un castano chiaro tendente al biondo, da l'aspetto maestoso, che pareva accordarsi perfettamente al carattere del vetusto palazzo di cui diveniva signora; alta e con un portamento da regina, ella nelle graziose acconciature e nelle succinte vesti, di cui la moda era venuta allora da Parigi, nulla perdeva de l'austerità naturale; ed il suo viso, soprattutto i suoi occhi e la fronte, restavano severamente assorti, come in un mesto pensiero, sotto i diffusi riccioli ornati da un filo di perle, da un nastro di velluto e da un capriccioso spennacchietto.
Tale ci appare in una miniatura sopra una tabacchiera di Monaldo: nessun sorriso, nessuna mollezza nelle austere sembianze: non sembra una delle graziose, voluttuose donne del secolo passato, ma un'antica matrona travestita.

Citazioni

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  • Non è tetro Recanati, ma nella gioiosa festa de' suoi dintorni ha un'aria seria e severa al par di molte città e villaggi antichi nostri; nelle mura vetuste, nelle strette vie, nelle chiese severe, quali il duomo e Sant'Agostino, nei conventi, nei campanili, quali la torre di piazza o torre del borgo, quella, antichissima, di Sant'Agostino, che con l'alto cono attirava i fulmini e fu perciò abbattuta, nei neri palazzi Carradori, Roberti, Antici, Leopardi spira l'austerità del passato. Quiete e silenti quasi sempre le vie, ove suonava di rado (parlo del secolo scorso, ma si potrebbe dir lo stesso del nostro) il cigolío di un carro pesante e il rintocco pensoso di una campana, il canto di una donna, il gorgheggio dei rosignoli, non infrequenti ospiti degli ampi giardini, più verdi che fioriti. (p. 60)
  • Paolina [Leopardi, fanciulla], vestita sempre semplicissimamente di nero, piccola e gracile, aveva capelli bruni e corti, occhi di un azzurro incerto, viso olivastro e rotondetto; era brutta, ma di una gentilezza, di una bontà, che potevan farla parere graziosa a chi la conoscesse intimamente. Ella si adattava ai chiassosi giuochi dei fratelli, benché preferisse i divertimenti più tranquilli; le piaceva soprattutto dir la messa dinanzi ad un altarino, e per questo; Giacomo e Carlo solevan chiamarla Don Paolo, nome che le rimase a lungo. (pp. 62-63)
  • Paolina [Leopardi], crescendo, andava arricchendosi oltre che d'un'ottima cultura generale, di una cognizione chiara e non superficiale de la letteratura italiana, latina e francese; meno profondamente, conobbe anche lo spagnuolo. In italiano scriveva con facilità e con semplice eleganza, tanto che del suo modo di scrivere Giacomo le fece lode più volte; egli chiamava le sue letterine e il suo stile così gentili da non parer non solamente recanatesi, ma neanche italiani; e pensava forse a la lunga ed accurata lettura che Paolina aveva fatto de le lettere di Mad.e de Sévigné, ch'ella chiamava la sua opera classica, asserendo di saperle tutte a memoria. L'approvazione di Giacomo faceva strabiliare la sua modesta sorella, che gli confessava di vergognarsi quasi di scrivere a lui, temendo ch'egli scoprisse l'inganno di quelli che la lodavano pel suo stile. (p. 68)
  • La contessa [Teresa Carniani], che amava la compagnia de gli uomini d'ingegno, fu lieta di conoscere il giovane recanatese [Leopardi], di cui la fama, benché non certo allora ancor adeguata al merito, narrava grandi cose: il fare dignitoso e modesto, l'aspetto malaticcio e sofferente, la malinconia di lui, dovettero commuoverla di una pietà quasi materna, resa più intensa da l'ammirazione per quel grande intelletto. Perciò ella lo accolse con un' affabilità affettuosa e reverente, con un'effusione che aperse a sincera gioia l'animo de l'infelice, avido d'affetto, cui ella apparve come una donna diversa da tutte le altre, come un'amica tenera ed alta, di cui la mano candida gli offrisse ne la stretta affettuosa un conforto ed un sostegno; diversa da tutte le altre, pure richiamante al suo pensiero le più dilette immagini femminili che avevano allietata la sua giovanezza: modesta e pura come Silvia e Nerina, graziosa ed arguta come la Cassi, gl'inspirava la reverente tenerezza che aveva provato per quelle e l'ammirazione ardente e devota che a lui, ragazzo ancora, sparuto, deforme, ammalato, aveva fatto apparir questa come una divinità. (pp. 199-200)
  • Due anni dopo la morte de la sorella, Antonio Ranieri pubblicava i Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi; io credo che se la sua gentile Paolina fosse vissuta, i consigli di lei avrebbero potuto, quel che non poterono le parole del fratello Giuseppe, dissuader l'autore dal dare al pubblico il disgraziato libro, il quale non menoma punto l'ammirazione, accrescendo la pietà pel poeta di Silvia e di Nerina, ma offusca quel raro esempio d'amicizia che gl'Italiani erano ormai abituati a venerare. Forse Antonio non avrebbe né pure scritto quel libro, mentre gli stava a fianco la pia, cui da la sovrana infelicità del Leopardi non era venuto alcun senso di repugnanza, di egoistica sofferenza propria, ma che sentì invece con l'ammirazione per quel grande spirito, il bisogno gentile di alleviarne gl'immensi mali, l'attrattiva che avvince la donna vera a chi soffre. (pp. 310-311)
  • Silvia è sorella di certe dolci femminili figure virgiliane ed omeriche, ma è tutt'altro che una reminiscenza classica, è un ritratto di una realtà, d'un'evidenza meravigliosa. La giovanetta da gli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa, percorre con la mano veloce la tela e, immaginando un vago avvenire, riempie del suo canto le quiete stanze e le vie d'intorno, mentre, come la Laura petrarchesca sotto la pioggia di fiori cadente da l'albero, umile continua intenta l'opera femminile, sotto la diffusa luce del maggio, il riso del cielo sereno. Col rimpianto de la fanciulla perduta, il poeta risente più amaro lo sconforto dei soavi perduti pensieri, de le morte speranze; nel cantare Silvia egli risente in sé quel suo cuore d'una volta. Non dimenticò mai la bruna popolana, e, se il canto di una tessitrice solitaria sempre lo commosse, gli è certo che in ogni solinga laboriosa fanciulla, egli rivedeva col pensiero l'immagine adombrata de la candida Teresa [Fattorini]. (p. 336-337)
  • Questa [per Fanny Targioni Tozzetti] fu la più vera e terribile passione del Leopardi, e si ricollega a gl'impeti del primo amore, ai deliri per la Malvezzi; è una passione pura, ma tutta umana, che probabilmente il poeta, sempre riserbatissimo e timido, perché conscio de la propria inferiorità materiale e dei doveri de l'ospitalità, non palesò mai a la donna cara, ma ch'ella dovette comprender benissimo, poiché il Leopardi stesso aveva certa coscienza di esser stato capito.
    Le debolezze, cui per tale passione egli si lasciò andare, furon tali che non la donna soltanto, ma anche gli amici di lui compresero il suo secreto e si dolsero e del suo soffrire e del suo non saper resistere a quel disgraziato affetto. (pp. 384-385)

Studi letterari

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  • Primo in Italia, e meglio forse di ogni altro, il Nencioni ha studiato l'umorismo, che cosi bene seppe comprendere, perché umorista era egli stesso; egli stesso per natura sua era disposto a guardare con simpatica indulgenza quanto la vita e il mondo hanno di contraddittorio e di assurdo, egli stesso aveva il sentimento del disaccordo tra le realtà dell'esistenza e le idealità dello spirito, egli stesso aveva spesso contemporaneamente un sorriso su le labbra, un malinconico sguardo negli occhi ed un doloroso affetto nel cuore. (p. 19)
  • [Enrico Nencioni] Le sue traduzioni rivelano anch'esse le notevoli qualità del suo ingegno ed insieme il perché egli sia riuscito un vero critico; poiché vediamo in esse la comprensione perfetta dell'originale in tutti i suoi più minuti particolari; ogni gradazione del sentimento, ogni sfumatura del colorito sono rese con l'efficacia dell'espressione, della parola più propria. Quei brani de' suoi preferiti autori, di cui nelle sue critiche inserì la traduzione, sono da citarsi ad esempio e per la fedeltà scrupolosa e per l'arte con cui il pensiero è reso nella sua vera luce e in tutta la sua luce. (p. 24)
  • [Enrico Nencioni] Come conferenziere ebbe pochi rivali; forse la parola conveniva più che la penna al suo ingegno, illuminato spesso dalla fulgente e fuggevolissima ispirazione del cuore e della fantasia: quand'egli parlava, all'attrativa del suo pensiero profondo ed arguto, del suo stile colorito e tutta grazia, si aggiungeva l'incanto della voce velata, ma espressiva, della fisonomia, dello sguardo, che erano quasi un commento, del porgere eletto, del gesto che pareva voler segnare nell'aria i fantasmi della mente. Compreso del suo soggetto, commosso spesso veramente, egli aveva il secreto di commuovere e dilettare. (p. 29)
  • La coltura di Carmen Sylva, specialmente se si considerano le abitudini del tempo, può dirsi maschile, anzi di più si può affermare che pochi, anche tra gli uomini delle classi elevate, ebbero la fortuna di una istruzione cosi seria; giacché ella studiò, oltre alle principali lingue moderne, le antiche, era entusiasta per le matematiche e la fisica e più tardi si rivolse alle scienze storiche e filosofiche e si occupò con amore nello studio della letteratura universale; tuttavia a dicianove anni non aveva letto un romanzo. (p. 71)
  • [Carmen Sylva] Varia e vastissima è l'opera sua di poeta: dalle sue traduzioni tedesche di poesie rumene, ai poemi La Maga, Iehova che racconta l'antica leggenda dell'Ebreo Errante ed è ispirato dal concetto dell'assorbimento d'ogni vita in Dio; dai poemetti Saffo, Hammerstein, Sulle acque, Naufragio ai melodrammi Neaga, Una prece; dai melodrammi alle varie raccolta di poesie, Ballate e romanze, Tempeste, Altezze ed abissi, Saggezza mondana, La madre e il figlio; dalle poesie varie, alla tragedia Ullranda, al dramma Marioara, è una catena non interrotta di lavori graziosi o belli. (p. 78)
  • [Ugo Foscolo] Ebbe ingegno vivacissimo e dalla Grecia natia trasse l'amore alla bellezza plastica, l'arte finissima; ma se dagli antichi egli, poeta, apprese la squisitezza della forma, fu veramente moderno e profondamente sincero nel contenuto. (p. 125)
  • [Ugo Foscolo] Indole severa, meditativa, profondamente malinconica, non della tristezza che persuade alla negazione di tutto, bensì di quello che, nata da un vivissimo desiderio del bene, è feconda di vigorosi, virili pensieri, d'alte inspirazioni e d'alti sensi; dolente per la patria sua che gli era stata tolta e il modo ancor l'offendeva, e per questo e per una sdegnosa ritrosia di tutto ciò che è volgare e malvagio, schivo del mondo, ardentissimo d'ammirazione per le memorie gloriose del passato, Ugo Foscolo per natura e per elezione fu il vero poeta delle Tombe. Rifuggendo con lo spirito dal consorzio dei viventi che troppo spesso lo sdegnava e lo addolorava, gli piacque ricercare di là della tomba i grandi che sovrastano ai secoli e alle genti, ed a ragione fu detto che i suoi Sepolcri paiono composti in Santa Croce. (pp. 130-131)
  • [Pietro Metastasio] Antitesi vivente dei moderni nelle idee, nei sentimenti, nei vizi, nelle virtù; uomo, abate, poeta cesareo, è una figura d'altri tempi, troppo diversi dal nostro, benché non lontani, perché l'entusiasmo possa accenderci per lui, perché l'opera sua ci scuota con la potenza dell'arte nella quale sentiamo il nostro sangue e troviamo espresso il pensiero, l'affetto che si agita in noi privo ancora di forma. (p. 141)
  • [Pietro Metastasio] È una di quelle maestose figure che vivon nei quadri del secolo scorso; l'abate poeta e gentiluomo, grave nella posa, ma dolce nello sguardo e azzimato nelle vesti, in parrucca incipriata e polsini di trina. Vedete il suo ritratto: la grassa faccia bonaria è illuminata dai magnifici occhi miti e intelligenti che un pensiero d'odio o di vendetta non deve mai aver offuscati; la fronte alta è pura e serena, il dolore non l'ha segnata delle sue rughe, solchi fecondi per l'anima del poeta; le tempeste della passione non hanno contratto questo bello e buon viso di filosofo e d'artista, uomo e perciò debole talvolta, ma degno di rispetto e spesso di simpatia, fin nelle sue debolezze. (p. 141)
  • [Pietro Metastasio] Sembra che parli di sé, quando dipinge Niccolò Iomelli «di figura sferica, di temperamento pacifico, di fisonomia avvenente, di ottime maniere e di costume amabilissimo.» Indole tranquilla, rifugge dalla lotta, è nemico del male, ma senza violenza; ama la famiglia, gli amici, la patria, l'arte, di un amore calmo, ragionato, ragionevole, senza gl'impeti e le follie della passione; vagheggia con ammirazione sincera le alte difficili vette dell'eroismo e del sacrificio, ma da lungi, a mente fredda e a polso quieto. (pp. 141-142)
  • L'Arcadia non è che una continuazione del secentismo; se questo peccava di vacuità boriosa, annunziantesi a colpi di gran cassa ed era sforzo che diede i suoi naturali effetti: esagerazione, stranezza, artificio; quella fu miseria palese, che menò vanto de la sua pochezza e sorrise, compiacendosi, de la sua nullità. (p. 217)
  • Gli accademici [dell'Arcadia] (prima cosa in quel tempo era la forma e l'apparenza) presero nomi pastorali e possessi immaginari in regioni classiche: emblema de l'accademia fu la siringa pastorale, protettore il bambino Gesù: e si chiamò Bosco Parrasio la sede sul Gianicolo, ottenuta da la generosità di Giovanni V di Portogallo, festeggiato dagli accademici con giuochi olimpici. Custode dell'Arcadia fu nominato il Crescimbeni, uomo povero d'ingegno, di cui Vernon Lee afferma giustamente che ebbe una sola idea originale, quella che la Divina Commedia sia un poema comico e il Morgante Maggiore un poema serio. Egli fu devoto con un vero culto all'Accademia e, benché non potesse darle durevole e fecondo vigore, la fece fiorire come una sterile, ma rigogliosa vegetazione. (p, 219)
  • L'Arcadia si propose di sterminare il cattivo gusto perseguitandolo fin nelle ville e nelle castella più ignote; ed era saggio indubbiamente il proposito di ricondurre le Lettere alla semplicità riavvicinandole alla natura, di rinnegare il gusto falso de' secentisti e cercare maggior moderazione nelle idee e correttezza nella forma; era saggio e non fu inutile, ma non se ne ottennero i frutti sperati. A la gonfiezza la vacuità, a la pretensione di novità stupefacenti:
    «È del poeta il fin la meraviglia;
    Chi non sa far stupir vada alla striglia»;
    succedette l'ambizione di semplicità puerili, allo smagliante sfolgorìo di similoro e di cenci sfacciatamente sfarzosi, la nudità di un corpo consunto, velata appena di fronzoli, di foglie e di fiori. (pp. 219-220)
  • Hroswita era donna, e, come tale, immaginosa ed appassionata, calda nell'entusiasmo, vivace nell'espressione; scriveva come l'impeto del sentimento le dettava, non poneva argine a tutto quello strano fiume di poesia, che le sgorgava dall'anima concitata; e trovava immagini lussureggianti come una vegetazione selvaggia, affetti miti e profondi, che avevano talvolta impeto, come di passione; in lei parlavano eloquenti l'amor di patria, l'ammirazione pel valore, l'affetto di amica e di sorella per le suore, la sincera pietà religiosa e il culto degli studi e dell'arte antica. (p. 235)
  • La coltura di Hroswita, straordinaria per que' tempi, fu inuguale quanto varia; e l'arte sua ebbe, malgrado l'imitazione dai Latini, qualche cosa di originale e di spontaneo. Ella è ben lungi dalla pura e corretta poesia latina e da ogni poesia colta e studiata; l'opera sua è frutto spontaneo d'un'indole naturalmente poetica, che tutto fa da sé e che, insieme a pregi singolari, ha intemperanze e difetti gravi. (p. 235)
  • [Catharina Elisabeth Goethe] Vi era tanto affetto nella sua semplice anima di donna modesta che tutti intorno a lei dovevano goderne e la sua allegra simpatia che si rivelava nel volto aperto, nel sorriso benevolo e franco, nel grazioso portamento, nella cara affabilità dei modi piaceva a grandi e piccini e rendeva attraente la sua conversazione, benché la coltura di lei fosse alquanto superficiale. Dai suoi primi sino ai più tardi anni amò dividere il tempo tra le faccende di casa ed i libri e sempre rimpianse di non aver potuto istruirsi profondamente. (p. 247)
  • [Catharina Elisabeth Goethe] Nata in una famiglia religiosissima conobbe tutti i libri sacri, apprese altresì il canto, il cembalo e il francese, e ne' primi anni del suo matrimonio la sua coltura fu curata anche dal marito; benché non dotta, la naturale intelligenza, la gentilezza, il contegno squisitamente dignitoso e quello spirito benevolo che le facevano studiare i caratteri di coloro, che le stavano dintorno per portare a tutti pace e gradimento, davano in lei l'impressione d'uno spirito superiore; cosi le sue lettere non sono impeccabili dal lato della grammatica, ma ricche di vivacità, di freschezza, di buon senso, di sentimento. (p. 247)

Bibliografia

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