Primo Levi (1853-1917)

giornalista, scrittore e diplomatico italiano (1853-1917)

Primo Levi (1853 – 1917), giornalista, scrittore e diplomatico italiano.

Primo Levi in un ritratto di Luigi Conconi, Galleria d'Arte Moderna di Milano (1880)

Paesaggi e figure musicali modifica

  • Beethoven è il mare, la terra, il cielo, ed è insieme l'umanità. Haydn era stato l'innocenza della visione e della sensazione; e, mentre in Bach era essenzialmente la solennità chiesastica, ed in Händel la magniloquenza biblica, Gluck vedeva, sentiva e rendeva Natura e pathos con animo eminentemente classico, come un trageda greco. (p. 7)
  • Beethoven è, come Goethe, il grande, complesso, completo naturalista; e, non ammirandolo meno del poeta, lo amiamo di più, in ragione non soltanto delle sue sventure, ma per la intensità d'emozione ch'egli, grazie al dolore provato, è capace di suscitare nell'anima nostra. Non meno filosoficamente obbiettivo di Goethe, egli è insieme assai più soggettivo. Noi sentiamo che Beethoven fortunato avrebbe saputo e voluto fare per Goethe ciò che il fortunatissimo Goethe, pur professandogli affetto, non seppe per lui, e l'ossequio che c'inspira il suo genio è scaldato dall'amore che ci suscita la sua persona. (p. 7)
  • [...] considerare Beethoven paesista soltanto nella Pastorale sarebbe rimpicciolirlo indegnamente. Tutte le sue Sinfonie, tutta l'opera sua è investita e rivestita di questo sentimento della Natura, che finisce col prorompere nell'Inno della Nona, ma che permea da ogni sua creazione. La stessa Suonata a Kreutzer, in cui è tanto di passione sensuale da avere inspirato a Tolstoi, al gran nihilista, la peggiore bestemmia contro la vita e contro l'amore che sia mai stata pensata e scritta, è il palpito di una umanità in intima corrispondenza con tutta la rimanente vita che vibra nell'ambiente, col fremito per cui si sposano le piante fra loro, e dal cielo alle acque è un perenne connubio, sotto il raggio lunare e nel calore dei fecondi meriggi. (pp. 7-8)
  • [...] la Eroica è il grande quadro storico, in cui vediamo la vicenda umana, colta nei suoi eventi magnifici e nei suoi maggiori protagonisti; degna veramente del momento in cui fu scritta, ma intonata a tutt'i tempi, sintesi della forza umana, rappresentata da Alessandro o da Cesare, da Carlo Magno o da Barbarossa, da Ferruccio o da quel Napoleone che l'aveva inspirata, e pel quale Beethoven si dolse d'averla scritta. (p. 8)
  • I devoti di Wagner saranno contenti: in questa Italia, dove nacque la musica moderna; dove, da Guido a Monteverde, da Monteverde a Verdi, la musica è una serie di genii, fu scritto, da più d'una penna italiana, che era morto con Riccardo Wagner il massimo genio musicale nel nostro secolo: di questo secolo in cui vissero e produssero e imperarono senza contrasto Beethoven in Germania, Rossini in tutto il mondo; Rossini sul teatro, Beethoven negli intelletti.
    O felice ignoranza che prodighi spropositi, con imperturbabile serenità, vi è davvero da ammirarti, davanti a questi enunciati, che, se dimostrano a quali deplorevoli mani sono oggi affidati in Italia giornalismo e critica, fanno parere assai più dura ed amara, la lotta a chi, scrivendo, ha la strana pretesa di voler pensare, e, giudicando, vuole esporre convinzioni, non appagandosi nemmeno di opinioni sincere, epperò studia, lavora, indaga, confronta, si chiude in sé stesso, si pone a contatto con gli altri, ond’esca da quella vita intima e da quella vita esterna, dalle impressioni proprie e dalle altrui, la luce del vero dinanzi alla sua mente. (pp. 15-16)
  • Si rimprovera a Mascagni il ricordo di sé stesso e di Puccini, e veramente l'enfasi sostituisce in più punti la commozione, e l'abuso di effetti voluti fa torto alla spontanea leggiadria; si potrebbe anche fargli appunto di essersi troppo ricordato del Rossini del Barbiere, nella scena del contratto nuziale e nel finale secondo. Ma per questo non si può condannarlo, visto che si è amnistiato Rossini di essersi tanto ricordato di Cimarosa; e per quello, si può ben comprendere, senza mostrarsi scandalizzati, che lo stesso atteggiamento musicale del nostro momento, che è nell'aria, e che non è di Puccini più che non sia di Mascagni, abbia influito sull'uno e sull'altro, senza ammettere nell'autore delle Maschere il preconcetto di una appropriazione, che non era fatta, del resto, per portargli fortuna. (pp. 299-300)
  • Prosa; se no, versi che non sieno versi, o abbiano almeno il pudore di non parer tali; e, quanto a musica vocale, la men musicale possibile: questo si chiama oggi pel melodramma in genere essere nel vero, e pel melodramma italiano più specialmente, poiché in esso e per esso si mira, a piegare il preteso vero dei suoni al verismo del soggetto. È come dire che si va perdendo, se pur non si è perduto interamente, il senso di ciò che deve, che può essere il vero teatrale, ed anzitutto il vero melodrammatico.
    Il quale, per essere, e per provocare l'impressione della realtà, non può che uscire dalla realtà stessa, da quella che è realtà materiale della esistenza, per assurgere ad altra, a quella, cioè, realtà psicologica a cui deve mirare un'arte, che non ha né ragione né mezzi di produrre, se non riesce la illustrazione sublimata della vita, in quanto essa sia anzitutto idee, e ancor più, sentimenti, o in sé stessi, o in alcune figure, sia isolate, sia nell'ambiente umano e cosmico che le circonda ed in cui debbono campeggiare.
    A questo solo patto è possibile l'illusione; e senza illusione può esservi teatro anche solo drammatico e comico, e tanto più musicale? (p. 468)
  • [...] sin dall'origine il melodramma ha accoppiato alla musica, non già la prosa, ma la poesia, poiché la forma poetica del linguaggio verbale era pel linguaggio musicale il veicolo più naturale ed opportuno ad uscire da quel vero materiale di cui esso era la negazione. (p. 470)
  • Uomini del nostro tempo – si dice – e dei nostri paesi, dall'aspetto uguale al nostro, agitati dagli stessi nostri casi, come mai, per esprimersi, dovrebbero cantare invece che parlare semplicemente? Sarebbe un controsenso. Parlare debbono dunque, cantare non più. Ma allora, perché e che cosai rimane del melodramma? (p. 472)
  • Invero, non si nasce indarno italiani; indarno non si nasce in questo nostro, che è il paese della poesia e del canto, in questa Italia ove tutti ancora, sempre, poetano e cantano, dalle filandiere lombarde alle stornellatrici toscane, dove ancor non son morte né la nenia dei gondolieri, né la serenata dei trasteverini, né la canzone dei guappi, condotti dal sentimento ad uscir da una volgarità feroce o turpe per salire alle più delicate espressioni dell'arte; in questa Italia ove persino il grido dei giornalai fa agli stranieri – e ai tedeschi pei primi, notatelo ! – l'effetto di una canzone, che sia come la voce naturale dell'indole paesana fisica e morale! (p. 473)
  • Che l'opera artistica di un giovane presenti il carattere della giovanilità fisica, non è oggi in Italia sì frequente da non potersene rallegrare; ma non è neppure sì raro da doverne fare le meraviglie. La Sinfonia in Sol minore del Bustini, con cui l'Accademia di Santa Cecilia ha chiuso i suoi concerti, tanto si distingue però dalla generale produzione odierna, da giustificare pienamente il grido di lieta meraviglia, ch'essa ha provocato nel pubblico[1] e nella critica: si distingue per un senso di giovanilità spirituale, che non potrebbe essere più significante. Epperò, senza che tutti, forse, si sieno resi conto della ragione per cui l'imberbe musicista ha prodotto una impressione sì pronta, sì forte, sì generale, è riuscito per tutti tanto evidente quanto istintivo, ch'egli era inspirato, scrivendo, da una coscienza nuova, esprimentesi ed affermantesi con piena fiducia in sé stessa. (p. 484)
  • In due popoli, scarsi di numero, ma originali fra tutti, e tutti diversi fra loro, si può riassumere da antico per la nostra civiltà la virtù prima del pensiero: il popolo ellenico, il popolo ebraico. In quello, la gioia, in questo l'austerità della vita; in quello, la libertà spirituale, nel trionfo della forma terrena, Dio di sé stessa; in questo, un concetto così assoluto, imperioso, ristretto della Divinità, che, se ha giovato a determinare rigorosamente la linea della Nazionalità, della Patria, e ha inspirato ne' lunghi secoli eroismi e sacrifici, che hanno reso la stirpe mortale degna della immortalità, ha pure fatto la vita più limitata e men lieta. (p. 489)

Note modifica

  1. Nel testo "publico".

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