Marcello Simoni

scrittore italiano

Marcello Simoni (1975 – vivente), scrittore italiano.

Marcello Simoni

Citazioni di Marcello Simoni modifica

  • [Il monte Musinè] [...] era un luogo avvolto dal mistero, e si diceva che là lo spirito di Erode si aggirasse su un carro infuocato. Fra quelle rocce, inoltre, le streghe si radunavano per celebrare i loro riti [...][1]

Incipit di alcune opere modifica

Saga del Mercante di libri modifica

Il mercante di libri maledetti modifica

Anno del Signore 1205. Mercoledì delle Ceneri.

Folate di vento gelido sferzavano l'abbazia di San Michele della Chiusa, insinuando fra le sue mura un odore di resina e di foglie secche, e annunciando l'arrivo di una bufera.
La funzione vespertina non era ancora conclusa quando padre Vivïen de Narbonne decise di uscire dal monastero. Irritato dalle effusioni di incenso e dal palpitare delle candele, varcò il portale d'ingresso e passeggiò per la corte innevata. Davanti ai suoi occhi, il crepuscolo soffocava gli ultimi spicchi di luce diurna.
Un'improvvisa raffica di vento lo investì, suscitandogli un brivido a fior di pelle. Il monaco si strinse nella tonaca e increspò la fronte, come avesse ricevuto un'ingiuria. La sensazione di disagio che lo accompagnava dal risveglio non accennava ad abbandonarlo, anzi, si era inasprita durante il corso della giornata.
Persuaso a mitigare l'inquietudine con un po' di riposo, deviò il cammino verso il chiostro, ne attraversò il colonnato e penetrò nell'imponente dormitorio. Fu accolto dal chiarore giallognolo delle fiaccole e da una successione di vani angusti, a dir poco soffocanti. Indifferente a quella morsa claustrofobica, Vivïen percorse un labirinto di corridoi e scale sfregandosi le mani per il freddo. Sentiva il bisogno di coricarsi, di non pensare a nulla, ma quando giunse davanti all'uscio della sua cella, trovò ad attenderlo un particolare inaspettato. Un pugnale a forma di croce era conficcato sulla porta d'ingresso. Dall'elsa di bronzo pendeva un biglietto arrotolato. Il monaco lo fissò per un istante, in preda a un terribile presagio, finché non si fece coraggio e decise di leggerlo. Il messaggio era breve e spaventoso.

Vivïen de Narbonne,
colpevole di negromanzia.
Sentenza emessa
dal Tribunale Segreto della Saint-Vehme
Ordine dei Franchi-Giudici.

La biblioteca perduta dell'alchimista modifica

Anno del Signore 1227.
Diocesi di Narbonne

Nel suo punto più alto, la facciata della vecchia pieve era dominata da un'apertura circolare da cui non entrava mai la luce, nemmeno nei giorni più assolati. Sarebbe stato pretenzioso definirla un oculo, si trattava piuttosto di una cavità sagomata dalle interperie, l'orbita di un grande teschio dove gli spifferi del vento si intrufolavano per giocare.
Affacciata a quell'apertura, una monaca solitaria faceva scivolare lo sguardo sulla vallata, fra le distese di verde e il biancheggiare delle greggi. Muoveva le pupille quasi con inerzia, indifferente ai segni di una primavera precoce. Era ben altro a rapire la sua attenzione. Contemplava il profilo di un'epoca funesta, ed era talmente assorta da udire i rintocchi delle campane di Saint-Denis che mesi prima avevano annunciato il rientro di Luigi VIII a Parigi.
Il re crociato era tornato cadavere, avvolto in una pelle di bue.
Ma la monaca non condivideva il pensare comune, si rifiutava di scorgere in quella disgrazia l'incombere della Grande Mietitura. Non erano i Cavalieri dell'Apocalisse a mettere a ferro e fuoco la sua terra, a formentare la paura dell'eresia, a dare voce ai falsi profeti. Tutto ciò non dipendeva da Dio, ma dal genere umano. In parte anche da lei.
Batté le palpebre, nel tentativo di spezzare la catena dei suoi ragionamenti, ma il susseguirsi incessante dei pensieri, come una risacca, riportò alla memoria le visioni di un inferno sotterraneo dove a trovare sofferenza non erano i morti ma i vivi. E per un attimo si sentì avvolgere dalle tenebre di Airagne...

Il labirinto ai confini del mondo modifica

Anno del Signore 1229, 15 gennaio
Basilica minor di Seligenstadt

L'alba indugiava, soffocata da una notte impenetrabile. Una notte che forse sarebbe durata in eterno. Nella basilica carolingia, in una stanza lontana dal dormitorio, Konrad von Marburg era affacciato alla finestra. Osservava il paesaggio ammantato di buio, immobile come un cane da punta che ha fiutato la sua preda. Era in attesa di qualcosa, un segno, una visione, e in cuor suo non sapeva se si sarebbe manifestato davanti ai suoi occhi o nel profondo dell'anima. Aveva già intuito, tuttavia, di cosa si trattasse. Dopo trent'anni di roghi ed esorcismi, era certo di non sbagliarsi. L'aveva percepito come un suono uscito dalle tenebre, il nitrito di un destriero. Ed era pronto a combattere.
Socchiuse le palpebre, sprezzante dell'aria gelida che gli sferzava il viso. Il vento del nord sibilava per i campi e lungo le strade come una furia. Carezze di una natura matrigna, doni di un inverno che stringeva la Turingia e la Renania in una morsa ghiacciata. Vi coglieva quasi un avvertimento, un anticipo di quanto l'aspettava. Perché lui, Konrad von Marburg, era riuscito a scorgere la trama del Maligno negli eventi umani.
Fiat voluntas tua, ruminò, chinando lievemente il capo.
Chiuse gli scuri e si rivolse alla stanza in penombra. Sopra uno scrittoio l'attendevano due lettere, una vergata in tedesco, l'altra in latino. Le aveva scritte entrambe nel corso della notte, quasi di getto, e lasciate sul ripiano in attesa che l'inchiostro si fosse asciugato. La situazione era assai grave. Entro poche ore una staffetta sarebbe partita per consegnarle.
La prima era destinata al langravio di Turingia, il signore di quelle terre; la seconda invece a Sua Santità in persona, papa Gregorio IX. Avevano più o meno lo stesso contenuto, con lievi variazioni riguardo le formule di omaggio e di encomio.

Il segreto del mercante di libri modifica

Anno Domini 1232
24 febbraio

Un nitrito nella notte.
L'uomo restò seduto sullo sgabello, nella penombra della sua bottega, a lisciare una tavola di quercia con la pialla. Quel verso doveva provenire da vicino. Da troppo vicino perché lo si potesse ignorare. Ciò nondimeno continuò a osservare i trucioli che cadevano al baluginio della candela, disciplinando le imperfezioni del legno col trasporto di un monaco in preghiera.
Finché non sentì l'allodola smettere di cantare, e un tambureggiare di zoccoli interrompersi a pochi passi dalla sua dimora.
Immaginò un cavaliere smontare di sella e avvicinarsi nel buio, ma non si degnò di sbirciare dalle finestre sigillate con la pergamena. Erano lontani i tempi in cui obbediva all'istinto. Remoti quanto le sofferenze che soltanto una vita mansueta aveva saputo lenire.
«Tornate domani!», sentenziò appena udì un percuotere al battente dell'uscio.
Reco un messaggio!, rispose una voce maschile da dietro la porta.
«Domani, dopo le laudi!».
«Un messaggio!», insistette lo sconosciuto. «Per Willalme de Béziers!».
L'uomo represse un fremito. Erano anni che non udiva quel nome e, per le piaghe di Giobbe, avrebbe preferito che rimanesse sepolto nell'oblio. Sepolto, ripeté a sé stesso. Posò quindi la pialla, recuperò un grosso chiodo da uno scaffale e, dopo averlo nascosto nell'incavo della mano destra, si avvicinò all'ingresso. «Risalite sul vostro destriero!», intimò. «Willalme de Béziers è morto!».

La profezia delle pagine perdute modifica

Anno Domini 1232, mese di maggio

I due fuggitivi cavalcavano da giorni attraverso i boschi di Navarra. Coperti da mantelli e da ampi cappucci, si erano avventurati in sentieri sempre più impervi, tenendosi alla larga dai villaggi e persino dai capanni isolati che di rado spuntavano tra le ombre delle querce.
Ombre che parevano non finire mai.
Col suo tenue baluginare tra le fronde, la luce diurna si riduceva a una presenza quasi spettrale, mentre le notti sembravano rinnovare dopo ogni tramonto la promessa di un eterno oltretomba. Ed era proprio in quei momenti, al calare della palpebra del sole, che le ansie dei suoi compagni si facevano sempre più pungenti. Soprattutto nella donna. Bastava il rumore di un ramo spezzato o un frullo d'ali perché quest'ultima si voltasse di scatto per accertarsi di non avere inseguitori alle calcagna. L'uomo invece manteneva uno spirito più saldo, benché non esitasse, di tanto in tanto, a cercare con la mano destra il conforto della scimitarra che portava appesa alla schiena.
Procedevano uno di fianco all'altra, scambiandosi qualche cenno o parola solo all'occorrenza. Del resto, c'era ben poco di cui discutere. Anziché fingersi pellegrini e risalire il Camino Francés fino alla Guascogna, come previsto all'inizio della loro fuga, avevano deciso di spingersi a nord, verso il golfo di Biscaglia, con l'intento di imbarcarsi sulla prima nave diretta alla costa andalusa. Prendere il mare, si erano detti, rappresentava non solo il modo più rapido per lasciarsi l'Hispania, ma anche il più efficace per far perdere le loro tracce.
Il mare, d'altro canto, aveva per la donna un significato più profondo. Era al di là di quella distesa color ardesia che si nascondeva la sua famiglia e l'idea di varcarne i confini la faceva sentire in procinto di raggiungerla, qualsiasi rischio fosse stato necessario correre.

Codice Millenarius modifica

L'abbazia dei cento peccati modifica

Selve di Ferrara, ai confini del Borgo di San Giorgio
12 aprile 1333

I tre uomini si incontrarono dopo il tramonto, in gran segreto. Due di loro giunsero insieme a cavallo, seguendo il corso del fiume Padus fin quasi a perdersi in un labirinto di valli e acquitrini. Attesero tra gli alberi, attenti a ogni rumore proveniente dalle tenebre. La somiglianza dei loro volti, dell'incarnato chiaro e dei capelli fulvi rivelava uno stretto legame di parentela. Il più anziano, tuttavia, possedeva uno sguardo così profondo che sarebbe spiccato persino nel fuoco della battaglia. Erano entrambi ricoperti da armature a piastre finemente cesellate, segno di alto lignaggio, al pari delle bardature dei corsieri.
Il terzo uomo si presentò per ultimo, anch'egli a cavallo. Indossava una cappa purpurea e un galero da cardinale, ma i guanti ferrati stretti sulle redini lasciavano intuire la presenza di un usbergo sotto le vesti. «Vostra maestà, vostra altezza», disse fermandosi sotto la chioma di un grande olmo, «quale onore».
«Vi siete degnato, infine», sbottò il giovane, esprimendosi come lui in perfetto francese. Non aveva ancora compiuto diciassette anni, l'ardore e l'irruenza dipinti sul volto. «Un vostro maggior indugio, monsignore, e non ci avreste più trovati».
L'uomo al suo fianco lo zittì con un cenno. «Perdonate mio figlio, eminenza. Tra le sue molte doti manca quella di saper tenere a freno la lingua».
«Be', il principe dovrà imparare», ribatté il cardinale, allusivo. «Da stanotte, per lo meno».
«L'avete dunque trovato?», chiese l'uomo in arme, abbassando il tono della voce.
Il porporato annuì. «Era diretto a Ferrara. I miei soldati l'hanno catturato nei pressi delle mura, mentre predisponevano l'assedio. Un colpo di fortuna».
«Dunque, non ci avete convocati fin qui invano», esultò il giovane. «E dite, eminenza, ha già... parlato?».
«Ne dubitate?».

L'abbazia dei cento delitti modifica

Città di Ferrara
13 marzo 1329, mattina

L'uomo in catene varcò le mura attraverso la Porta di San Paolo, tenuto al capestro da due armigeri. Stremato e con gli abiti laceri, stringeva le braccia al petto per combattere la morsa del tardo inverno. Era di corporatura gracile e poco avvezzo alla fatica, ma il bagliore in fondo alle iridi lasciava trapelare un animo focoso. L'unico segno di cedimento l'ebbe nel momento in cui volse lo sguardo al cielo e, sotto uno stuolo di nembi, vide una torre incombere su di sé. «Miserere mei!», gridò, cadendo in ginocchio. Da quelle merlature si usava appendere i bestemmiatori e i fraudolenti per farli precipitare tra i flutti del Padus.
Uno strattone di corda placò il suo sgomento, obbligandolo a proseguire per la Via Grande. Non fu facile. La pioggia della notte precedente aveva trasformato le strade in un pantano di sterco e fango, rese ancor più squallide dal fetore esalato dagli scorsuri fino ai fossati esterni. Odori assai più rivoltati, tuttavia, si levavano dalle carogne impalate sulle picche lungo la strada, vestigia delle famiglie ghibelline rastrellate dai servi di Avignone.
Il popolo lo attendeva più avanti, all'imbocco della piazza. Una distesa di sagome bigie premute l'una all'altra, intabarrate in guarnacche, cappe e mantelli di cenci. Il prigioniero ebbe l'impressione di imbattersi in un'orda di topi, abbrutita dalla fame e da un'ignoranza tale che le avrebbe impedito di conoscere persino Dio, se qualcun altro non avesse cercato di illuminarla.
Quei volti facevano spavento. Esprimevano un rabbioso disprezzo che tracimava nella ferocia, come se a tutti fosse manifesta la sua colpa.
L'uomo avanzò a capo chino tra mormorii e risate di scherno, in preda a una torma di fanciulli intenti a prenderlo a sassate. Mai avrebbe immaginato di dover subire un simile oltraggio! Eppure si impose di sopportare anche le ingiurie di quei piccoli bastardi, per non irritare il volgo, né tantomeno gli sgherri che gli facevano da scorta.
Procedette sotto la sassaiola fino al luogo del suo martirio.

L'abbazia dei cento inganni modifica

Selve di Ferrara
7 gennaio 1349, notte

Il cacciatore di lupi avanzò sulla distesa di neve, adagio, fra i tronchi di salice e quercia. La luna era ancora alta, l'alba di una sfumatura d'argento tra il cielo e le fronte imbiancate. Mantenne la fiaccola sollevata, lasciandosi alle spalle gli argini del fiume per proseguire verso nord, lo sguardo basso in cerca di tracce. Faceva quel mestiere sin da bambino, prima col padre e poi da solo, senza mai nessun altro a tenergli compagnia. Del resto odiava il genere umano e ancor più i cani, bestie indegne asservite al padrone. Si sentiva a suo agio soltanto nel bosco, l'unico luogo in cui la sua barba arruffata e i modi burberi non suscitavano né disprezzo né risate.
Si fermò ad ascoltare un latrato lontano, il pugnale giù pronto sotto il mantello di pelliccia. Non lo sfoderò. Benché quel verso somigliasse alla risata del diavolo, sapeva bene di dover temere maggiormente il silenzio. Era da lì che uscivano i predatori più infami.
E venissero pure, pensò all'improvviso. Stava battendo un terreno disseminato di tagliole e trabocchetti di cui soltanto lui conosceva l'esatta collocazione. Fosse comparsa una fiera, anche la più grossa che si potesse immaginare, avrebbe saputo indurla a posare le zampe nel punto giusto, e... sarebbe stata una bella rivalsa! Nessun lupo cadeva nelle sue trappole da oltre una settimana. Quei bastardi si facevano ogni notte più furbi, a dispetto del gelo che li rendeva famelici e disposti a spingersi sempre più vicino agli abitati.

Indagini dell'inquisitore Girolamo Svampa modifica

Il marchio dell'inquisitore modifica

Roma, via dell'Arco camilliano.
18 dicembre 1624

Posò la lanterna sul pavimento cosparso di segatura e xilografie sbiadite, osservando le cinque zampe di legno che salivano fino al pianale intarsiato e, sopra di esso, il gioco di travi, corregge e molinelli che davano forma al torchio. Benché fossero in molti a maledire quel genere di ordigno, la Babele da cui si erano propagate le dottrine di mille Lutero e Simon Mago, lui non l'aveva mai inteso uno strumento del diavolo.
Eppure era da lì che spuntavano le gambe della vittima, quasi in procinto di essere divorate insieme al resto del corpo.
La scena gli rammentò Giona ingoiato dal mostro marino, così come l'aveva scorto anni addietro sulla miniatura di un salterio veneziano. Con la differenza che nulla, in quel frangente, si sarebbe potuto fare per il malcapitato. Il tronco era irrimediabilmente schiacciato dalla platina metallica, sotto la vite del timpano. L'anima già resa al Signore.
Fra' Girolamo Svampa raccolse la lanterna e si portò all'altro capo del torchio. Non era la vista del macabro a scuoterlo, bensì una sensazione remota, familiare, che guidò la sua mano alla base del collo. Forse era stato l'odore dell'inchiostro di galla a risvegliarla, oppure quello ancor più pungente degli oli di cui erano intrise le matrici di bosso. Ormai non importava, pensò. Si trattava soltanto di combatterla, quella sensazione, a costo di ricorrere alla boccetta che celava in una tasca della cappa.
Tornò in bottega, talmente buia da dargli l'impressione di muoversi in una grotta, e avanzò fino alla testa del cadavere.

Il monastero delle ombre perdute modifica

Roma, catacombe di Domitilla. 25 giugno 1625.

- Mia adorata... dove siete?
Anziché rispondere, madonna Leonora continuò a correre con le gonne sollevate, la lanterna tesa in avanti per squarciare il velo dell'oscurità. Il damerino che la inseguiva era goffo, petulante e di una bellezza volgare. Se la fanciulla aveva accettato d'appartarsi con lui, era stato soltanto per il gusto di sentirsi desiderata e per frustrare l'ennesimo corteggiatore. Sempre meglio che unirsi alle zie, intente ad agitare ventagli nella soprastante chiesa del Domine quo vadis.
- Sbrigatevi mio caro! - lo incità con un tono di beffa che sfidava la tetraggine del luogo in cui si trovava.
Leonora non aveva paura del buio, né di turbare la quiete dei defunti. Era stata lei a decidere di scendere nelle catacombe, per sottrarsi alla noia di quel pomeriggio di inizio estate. Invece nulla, una vera delusione. Le nicchie che la circondavano erano ricettacoli di vecchiume e sporcizia, incapaci d'infonderle le emozioni degli antichi cristiani costretti a rifugiarsi nelle viscere di Roma. Ma ancor peggio, a suo avviso, erano le pitture grottesche che affioravano al barlume. Nulla di realmente spaventoso, a onor del vero, e nemmeno d'eccitante. Tanto valeva aggirarsi per rione Trastevere, dove se proprio si voleva andare in cerca di brutture, lo si poteva fare all'aria aperta.

La prigione della monaca senza volto modifica

Egitto. Deserto a sud-est dell'oasi di Siwa.
2 gennaio 1616

- Scappa ragazzo, scappa!
Kitab non se lo fece ripetere due volte. Curvo sull'arcione, si aggrappò alle redini e seguì a spron battuto l'uomo che cavalcava davanti a lui. Enormi dune color ocra si estendevano al suo cospetto come un mare sovrastato dall'imbrunire. Alle sue spalle, invece, la minaccia: otto guerrieri su corsieri arabi armati di archi e di spade ricurve.
Il ragazzo aveva una paura del diavolo, ma persino in quel momento, certo che non sarebbe sopravvissuto alla notte, nutriva una devozione incrollabile nei confronti dell'individuo che lo incitava a fuggire. Benché fosse stato proprio lui, il pellegrino giunto da Roma, ad aver cacciato entrambi in quel vespaio.
- Butrus! - lo chiamò. - Ci prenderanno!
- Non guardare!
Le loro vite si erano intrecciate l'estate precedente, nei bassifondi di Bisanzio. Mentre mendicava ai bordi di una strada, Kitab aveva visto lo straniero scrutarlo dall'altro della cavalcatura ed elargirgli un tarì di elemosina. Era stato naturale seguirlo, cercare in lui il padre che non aveva mai conosciuto. E ora eccolo a galoppare al suo fianco, senza speranza. Il ragazzo rammentava bene d'averlo consigliato di rinunciare ai misteri di Siwa, ma Butrus era curioso, avido di conoscenza e di reliquie. Ed era anche abbastanza astuto da aver saputo eludere la sorveglianza dei berberi e dei turchi. Non dei mamelucchi, però, che vigilavano sul deserto alla stregua di avvoltoi.

Rex Deus Saga - L'isola dei monaci senza nome modifica

Anno del Signore 1534
Una notte senza luna, sul mare di Toscana.

Il monaco si chinò per raccogliere il pugnale scivolato sull'assito del ponte, poi si rialzò in fretta e corse barcollando verso poppa, per non restare coinvolto nello scontro che infuriava ai piedi dell'albero di maestra. I pirati turchi avevano approfittato dell'oscurità per arrembare la galea. Se voleva salvarsi doveva assolutamente calarsi in mare, ma prima di raggiungere la scialuppa si accorse di un uomo alle calcagna. Lo vide uscire dalle tenebre, indifferente al violento oscillare della nave, con una scimitarra in una mano e una lanterna nell'altra. Non gli parve di stazza troppo robusta, tuttavia qualcosa nel suo portamento lo indusse a indietreggiare. Non sono all'altezza, si disse, provando il bruciore della vergogna. Fino ad allora era sempre riuscito a evitare simili pericoli, benché fosse preparato all'eventualità, e come un lampo nella tempesta sentì i precetti del suo maestro attraversargli la mente. Mai esitare dinanzi al nemico. Il monaco annuì tra sé, valutando se uno sguardo deciso e una voce salda fossero sufficienti a piegare un animo feroce, ma temette che l'oscurità e il fragore della burrasca avrebbero vanificato l'uno e l'altra.
D'un tratto avvertì l'incombere dell'inseguitore e capì di non avere scelta. Dovette battersi, come stava facendo chiunque altro a bordo di quella dannata galea. Tuttavia non fu la paura a fargli tremare i polsi, bensì la consapevolezza di cosa sarebbe accaduto se fosse morto. La sua vita era votata a proteggere un segreto antichissimo. Un segreto che non avrebbe mai dovuto essere scoperto.
In nome di quel segreto, trovò il coraggio di tendere il pugnale in avanti per sfidare l'inseguitore. Ne scorse l'ampio turbante, poi il volto privo di un occhio e la barba corvina che si apriva a ventaglio sotto il mento. Aveva il torace protetto da un corsaletto lamellato d'oro, il resto del corpo abbigliato da vesti pregiate. Non si trattava di un comune pirata.

Segretum modifica

L'eredità dell'abate nero modifica

Mar Ligure
15 aprile 1439, notte

Ci sono spiriti di mare e spiriti di terra. Cosimo de' Medici se lo ripeteva di continuo, tenendosi saldo alla prua del caicco mentre il porto di Livorno, ormai lontano, si perdeva in un'oscurità liquida dominata dalla torre del Fanale. Benché anni addietro, tra i suoi molteplici uffici, avesse curati i traffici navali di Firenze, non si riteneva avvezzo a solcare distese d'acqua che potevano scatenarsi in tempesta al minimo capriccio. Il suo talento era il denaro, la sua passione le biblioteche. Quelle, sì, erano vastità su cui sapeva navigare, senza timore di perdersi o di cedere alle lusinghe delle sirene.
Eppure eccolo oscillare tra i flutti, con il freddo a morderlo sotto il mantello e il desiderio di posare i piedi sull'erba di Careggi. Della galea giunta da Bisanzio non vi era ancora traccia, ma Cosimo la sapeva lì, tra le onde, e scrutava con insistenza nel tentativo di scorgere il barlume. Nessun cristiano tollerava di restare al buio per troppo tempo. Pur se si trattava degli scismatici d'Oriente.
Prima di distinguere la nave percepì il gemere della carena, poi vide una fila di lanterne palpitare nella notte. Lo scafo era di proporzioni enormi, un fuso d'ebano forse da cinquanta remi. Difficile essere più precisi con la luna oscurata e l'ansia per l'incontro con un uomo ambigui, imprevedibile quanto il mare. Un uomo salpato dal Corno d'Oro insieme ai teologi greci diretti al concilio di Ferrara, spostato a Firenze dopo mesi di complicanze. Al contrario del patriarca e del basileus, sbarcati da giorni, lui, il folle, aveva preferito restare al largo. E aspettare.

Il patto dell'abate nero modifica

Alghero, quartiere ebraico, 13 marzo 1460

Messer Giovanni Uzano fissava il vecchio che gli stava di fronte senza tradire fretta di proseguire il discorso. Sedevano sotto il pergolato di una locanda di Carrer de Sant'Elm, a pochi passi dall'antico Portal de la Mar che si apriva tra i bastioni, sulle acque scurite dall'imbrunire. L'unico suono a tener loro compagnia era il vociare delle donne dirette al porto. Madri, mogli e figlie dei pescatori corallo avvolte in scialli e zendadi che si gonfiavano alle folate del maestrale.
«Avete capito bene di cosa stiamo parlando?», ribadì il vecchio, tamburellando le unghie sul bordo del desco.
Uzano si servì da una ciotola di pesce salato che aveva davanti a sé e annuì vago. «Perfettamente».
«Scusatemi se insisto, ma ne dubito».
«Scusatemi voi, mastro Lunell. Reputate forse che sia giunto fin qui per godere della vostra compagnia?».
C'era una nota di fastidio nei modi di Uzano. Del resto si trovava al cospetto di un ebreo, nel cuore di una juharia eretta quasi in spregio ai cristiani nella zona più incantevole di Alghero. E benché quel Simeone de Lunell vestisse alla catalana e non portasse nemmeno la "rotella" obbligatoria a chiunque appartenesse al popolo di Jahvè, continuava a sbattergli in faccia le sue origini giudaiche arricciando il grottesco nasone da civetta.

L'enigma dell'abate nero modifica

Mar Ligure
13 maggio 1461

Troilo Sophianos rimase nascosto nel cassero, ben avvolto nella sua schiavina, mentre la ciurma di una nave sconosciuta prendeva possesso della galea su cui era imbarcato. Dannata sfortuna!, pensò. L'aveva sentita su di sé per tutto il viaggio da Avignone fino al porto della Acque Morte, dove, nell'illusione di sfuggirle, era salito a bordo di un legno destinato ad andare incontro prima a una tempesta e poi a un atto di pirateria.
Spiò da una feritoia del battente di legno borchiato, l'unica protezione che lo separava dall'esterno, e con sua grande sorpresa notò che gli abbordatori non avevano ancora ucciso nessuno. Si erano limitati a radunare i vogatori, il comito e il resto dell'equipaggio nella zona di prua, tenendoli a bada con pugnali e rampini di ferro, nell'attesa che la stiva venisse saccheggiata.
Se di primo acchito aveva pensato ai corsari turchi, ora Troilo si accorgeva che gli invasori indossavano abiti dal taglio occidentale. Non erano milites, ma semplici marinai al seguito di un tizio grasso e sgraziato che aveva faticato non poco ad attraversare la lunga tavola di legno estesa fra la sua imbarcazione - un brigantino privo d'insegne - e la galea presa d'assalto.
«Que voyez-vous?», mormorò una voce in accento provenzale.
L'uomo con la schiavina si voltò di scatto, scrutando la mezza dozzina di persone rintanate insieme a lui nell'ombra del cassero. A parlare era stato un giovane ufficiale, il più alto in grado di comando dopo che la procella della notte precedente aveva scagliato in mare il capitano e il timoniere con l'intero albero di maestra.
Anziché rispondere, Troilo riprese a spiare l'individuo grasso, che si stava portando al centro della corsia con aria compiaciuta. Definirlo grottesco sarebbe stato un complimento. Il ribaldo camminava aiutandosi con un bastone e aveva gambe sottili che facevano contrasto col ventre sporgente, dandogli l'aspetto di un abnorme cappone. Persino il modo d'incedere gli conferiva qualcosa del pennuto, con quel suo avanzare con il busto proteso in avanti, la schiena rigida e il capo che ruotava a destra e a manca.

I sotterranei della cattedrale modifica

La cattedrale dei morti modifica

Il lupo nell'abbazia modifica

La selva degli impiccati modifica

Borgogna.
19 ottobre 1454.

Nel cuore della campagna di Breaune, a mezza giornata di cavallo dalle mura di Digione, mastro Manuel Flamant sedeva da solo al tavolo della sua sacrestia, intento a contemplare una piccola teca.
Quando ne aveva sentito parlare per la prima volta, se l'era immaginata simile alle ampullae diaboli descritte da Papa Giovanni XXII e dall'astrologo Petrus Patavinus. Ora però, entratone in possesso dopo una lunga attesa, constatava non solo di trovarsi di fronte a una cosa del tutto diversa da quanto aveva immaginato, ma pure di non gradirne l'aspetto.
Tanto per cominciare aveva spigoli d'ottone che le conferivano l'aria di una lanterna d'altri tempi. Inoltre le quattro facce laterali presentavano, alla guisa di finestrelle, dei vetri colorati così spessi da impedire di scorgerne il contenuto.
Ma il vecchio Flamant non era solito fermarsi alle apparenze. Benché svolgesse le mansioni di curato tra i vigneti della Cote d'Or, aveva un intelletto assai più acuto dei villani che zappavano la terra intorno alla sua pieve. Ragion per cui si riteneva perfettamente in grado di distinguere il vero dalla paccottiglia.
E che dio lo perdonasse, quella teca aveva proprio l'aria di essere autentica! O, per lo meno, prometteva l'autenticità di ciò che racchiudeva.
L'iscrizione incisa alla base, OSNONCOMINVETISEXEO, riproduceva una rara formula di esorcismo atta a sigillare un'essenza innominabile, affinché nessuno ne subisse gli influssi. Influssi ai quali Flamant, d'altro canto, era convinto di poter resistere. Non in virtù della purezza della sua anima, che pura non lo era affatto, ma della sapienza degli amuleti di cui disponeva.
Per sua sfortuna, chiunque avesse fabbricato la teca pareva aver trascurato di inserire il meccanismo di apertura. I tasselli di vetro erano stati incastonati con tale maestria nell'intelaiatura da lasciar trapelare l'intenzione che quanto fosse stato rinchiuso all'interno non potesse uscire mai più.
A meno che non si trattasse di un rompicapo, ipotizzò Flamant mentre iniziava a rigirare l'oggetto tra le dita di un crescendo di morbosità.

La dama delle lagune modifica

Lagune di Comaclum
Anno Domini 807, 12 luglio

Nel punto dell'orizzonte in cui le nubi tempestose parevano aggrovigliarsi con le onde, Bonizo credette di scorgere il volto del diavolo. Poi sentì lo scafo inclinarsi verso dritta, maledisse il timoniere e, tenendosi ben saldo all'asta di prua, volse lo sguardo sui sei uomini aggrappati ai remi. Uomini aspri come l'aceto, eppure terrorizzati al pari di fanciulli. Uomini che ignoravano se quel giorno sarebbero tornati a casa, nonostante la terraferma fosse davanti a loro, da qualche parte, dietro una coltre di oscurità che d'un tratto aveva trasformato un limpido pomeriggio d'estate in una notte invernale.
"Invocate il Santo!" li incitò Bonizo, mentre con gli occhi flagellati dalla pioggia riprendeva a scrutare i flutti d'ebano arruffati dalla burrasca.
Benché non si trovasse in mare aperto, fin da bambino aveva appreso che nulla più di una laguna sconvolta dal fortunale somigliava alla bocca dell'inferno. E da allora l'aveva vista decine di volte, quella bocca, aprirso con un gorgoglio di acque torbide capace di risucchiare l'anima e il senno di un uomo. L'aveva vista spalancarsi sotto una tromba di vento più nera del peccato, scoperchiare i suoi fondali come il letto d'un sepolcro e ribollire verso l'alto fino a quando cielo, acqua e terra non fossero stati un tutt'uno. Ma sempre al sicuro, da lontano.
Adesso, invece, nel bel mezzo di quella bocca c'era proprio lui, mastro Bonizo, il temuto guardiano delle valli da pesca dell'Aula Regia. Troppo vigoroso per sentirsi vecchio. Troppo pieno di ambizioni per rassegnarsi a morire affogato.

Il castello dei falchi neri modifica

Anno Domini 1233, mese di febbraio
Terra Laboris

Aldelmo Grifone agitò la fiaccola nella notte.
Qualcuno l'aveva chiamato per nome, ma non osava mostrarsi al suo sguardo. Era un'ombra al galoppo tra gli alberi, un cavaliere fantasma accompagnato dal suono argentino di sonagli, tintinnabula, alla stregua di un giullare venuto dall'inferno. Un giullare che forse, come ultima beffa, tramava di infilzarlo con uno spiedo.
Cercando di non lasciarsi vincere da quelle suggestioni, Aldelmo sguainò la spada e indietreggiò verso la mole del castello che dominava dall'alto della vallata. Non sopportava l'idea che fossero giunti a provocarlo fin davanti alla sua dimora, il luogo in cui riposavano l'onore e la memoria dei suoi avi. Le mura vetuste in cui la stirpe dei Grifoni, scesa da Benevento, aveva prosperato per secoli sotto il dominio dei normanni e poi dei sovrani svevi.
«L'ultima tromba ha squillato!». La voce risuonò nel buio, accompagnata da una risata di scherno. «Prepara l'anima!».

Note modifica

  1. Da Il mercante di libri maledetti, Newton Compton, 2011.

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