Ernst Nolte

storico e filosofo tedesco

Ernst Nolte (1923 – 2016), storico e filosofo tedesco.

Citazioni di Ernst Nolte modifica

  • Nella storia le tendenze hanno provocato sempre controtendenze, e una delle controtendenze oggi più attuali è il regionalismo: paradossalmente, quanto più si cerca di unire l'Europa, tanto più la minaccia delle scissioni si fa pressante. [...]
    Colui che propugna la regionalizzazione non è contro l'Unione Europea – che l'accetterebbe ben volentieri –, convinto che all'interno di un'Europa, organizzata in modo ragionevole, la "Padania", ad esempio, potrebbe essere quasi indipendente (se ho ben capito il pensiero di Umberto Bossi). Bisogna però distinguere tra regionalismo e separatismo [...]
    Questo desiderio di autonomia a tutti i costi può portare a gravi conseguenze, anche a un isolamento forzato e credo che una tale decisione debba essere fortemente motivata, ossia "il gioco dovrebbe valere la candela". Nella grande lotta di indipendenza del XIX secolo, i greci furono la prima nazione oppressa che si ribellò e, nella lunga guerra contro i turchi, ottennero il completo appoggio dell'Europa. Essi erano veramente una nazione oppressa, ma non mi sembra di vedere nulla di paragonabile nell'Europa attuale.[1]

Controversie modifica

  • [...] l'antisemitismo di molti seguaci [di Hitler] restò volgare, come ad esempio quello di Joseph Goebbels che, in uno dei suoi primi discorsi, disse che quando gli si obiettava che anche l'ebreo era comunque un uomo, rispondeva che anche la pulce era un animale e un animale non piacevole dal quale bisogna difendersi.[2] (Controversie odierne, I, p. 35)
  • In un'indagine faticosa dei disegni dei progetti e dei reperti ancora presenti, come ad esempio le porte a tenuta di gas, Pressac giunse alla tesi che le progettazioni e la prima fase di costruzione dei crematori a Birkenau non erano connessi ad alcuno «scopo criminale», ma che in seguito sarebbe avvenuto un cambiamento. In altri termini: i grandi crematori vennero costruiti per domare il tifo che imperversava e le camere sotterranee erano in realtà previste come camere mortuarie seminterrate, ma più tardi la struttura venne adattata all'annientamento degli uomini. (Controversie odierne, II, p. 64)
  • Il contrasto fra « ricchi» e «poveri» è il contrasto sociale, elementare, in senso assoluto; non vi è nessun paese e nessun tempo in cui esso non compaia in un modo o nell'altro. Questo contrasto non è certamente «eterno». Per molte decine di migliaia di anni gli uomini vissero in piccole comunità e il tenore di vita del più vecchio della stirpe, o del capostipite, non si staccava essenzialmente dall'universale bisogno. Solo quando i capi, sotto la minaccia di guerre contro i vicini o contro gli invasori, raccolsero intorno a sé uomini che li sostenessero, che erano soprattutto guerrieri, si poté distinguere fra una classe guerriera che non lavorava e una «classe» lavoratrice che coltivava la terra. Solo quando i capi divennero «re» e gli uomini del seguito grandi proprietari terrieri e sacerdoti, si può parlare di una società di «civiltà elevata». Gli uni, si potrebbe dire semplificando, conducevano una vita estetica in mezzo a palazzi e a opere d'arte; mentre gli altri lavoravano dalla mattina alla sera. Dovunque volgiamo il nostro sguardo nello spazio della civiltà classica mediterranea, troviamo ricchi e poveri, signori e servi, oziosi e lavoratori. E ovunque si levò fra i poveri, gli schiavi e i sudditi, sorda o articolata, la protesta contro l'ingiustizia, che era originariamente soprattutto la resistenza contro il «lavoro al servizio di altri». (Controversie future, I, p. 79)
  • Lenin condusse un gioco gigantesco e pieno di rischi. Lasciò libero corso alla furia popolare e anzi l'istigò persino, tanto che il numero che non potremo mai determinare esattamente delle vittime uccise dalla folla e dei fucilati dalla Ceka, in pochi mesi, ancor prima del vero inizio della guerra civile, potrebbe essere stato di molte decine di migliaia di uomini; Lenin annullò anche il risultato delle uniche elezioni libere, che si erano svolte fino ad allora in Russia e concluse una pace separata con i tedeschi, che lo rese odioso agli Alleati come uomo di stato, prima ancora di farsi riconoscere come sovvertitore dell'ordine sociale. Lenin approvò poi l'assassinio dello zar e di tutta la sua famiglia, e proclamò il «socialismo» per quanto sapesse che nessun marxista ortodosso ritenesse che ne esistevano i presupposti. Sarebbe stato schiacciato dall'enormità delle atrocità, dei rischi, delle critiche, se non avesse fermamente creduto che tutte le vittime della rivoluzione erano poca cosa in confronto con le vittime di questa guerra e delle guerre future. Ovunque nel mondo la volontà rivoluzionaria si sarebbe fatta strada se si fosse soltanto riusciti a salvare dalla guerra in corso la Russia sovietica come faro del mondo. La democrazia sovietica avrebbe costituito allora una «forma più elevata» di organizzazione politica rispetto alla falsa democrazia rappresentativa delle potenze occidentali. Il socialismo si sarebbe imposto ovunque come l'unica forma ragionevole di una convivenza pacifica dell'umanità non più impedita dai confini degli Stati. (Controversie future, II, pp. 97-98)
  • I sionisti che erano in Europa orientale aspiravano a un destino normale e indipendente per il loro piccolo popolo da molto tempo prima che Theodor Herzl rendesse noto a tutto il mondo il concetto di sionismo e di «Stato ebraico». Per i sionisti, e anche per Herzl, come pure più tardi per Weizmann, l'antisemitismo era una naturale reazione dei popoli ospitanti alla diversità ineliminabile e all'attività espansiva, che si fonda sulla superiorità intellettuale degli ebrei. Solo il trasferimento nella vecchia patria, che la loro religione aveva prospettato nei due millenni della diaspora, sia pure nel travestimento irrazionale della speranza in un «Messia personale», offriva la via d'uscita salvifica di fronte allo scoppio delle grandi lotte sociali, nelle quali gli ebrei altrimenti sarebbero stati stritolati quali protagonisti delle fazioni nemiche. (Conclusione, p. 187)
  • Il sionismo era il Messia moderno e mondano e Herzl fu colui che mise in moto, con rappresentazioni irreali e ipotesi illusorie, l'impresa apparentemente senza speranza e che di fatto fu l'ultima occupazione colonizzatrice degli europei sul suolo asiatico. (Conclusione, pp. 187-188)
  • [...] i sionisti con i kibbuz crearono una nuova forma di organizzazione sociale, che era vicina per quanto possibile all'utopia dei primi socialisti senza che fosse diventata qualcosa di più di un aspetto della società e dell'economia complessive. (Conclusione, p. 188)
  • Non è certo possibile incolpare i sionisti di crimini come l'assassinio di classe dei bolscevichi e l'assassinio di razza dei nazionalsocialisti, a meno che non si ponga sulla stesso piano, in modo inammissibile, l'espulsione e l'oppressione dei palestinesi con le uccisioni di massa. (Conclusione, p. 189)
  • La «soluzione finale della questione ebraica» nazionalsocialista è unica tra gli eventi del secolo, poiché nella storia universale non fu mai fatto prima il tentativo di fermare e invertire il processo storico, inteso come decadenza, mediante l'annientamento della base biologica di un piccolo gruppo di uomini, quali suoi presunti autori. Esso però non è incomprensibile, perché ha premesse facilmente riconoscibili e non fu affatto opera di un «male assoluto» sottratto alla storia. (Conclusione, p. 191)
  • Lo storico russo Volkogonov ha avanzato la pretesa che solo i russi potrebbero trattare della storia dell'Unione Sovietica, poiché solo essi sarebbero in grado di scriverla «con il loro cuore».[3] Invero, egli pensa che anche gli stranieri possano analizzare tutta l'enormità dei crimini «stalinisti», ma che solo i russi potrebbero sentire quanta buona volontà, quanto idealismo, quanti nobili propositi nonostante questi crimini, anzi proprio in questi crimini, sarebbero stati presenti. Ovviamente egli non vuol dire che i crimini non dovrebbero essere analizzati in maniera scientifica oppure addirittura spiegati in termini apologetici, ma ritiene che uno straniero non sia in grado di comprendere l'abissale intreccio del male e del bene, del glorioso e del biasimevole. (Conclusione, p. 191)

Dopo il comunismo modifica

Incipit modifica

L'opinione pubblica dei Paesi occidentali si è ormai abituata a una situazione che all'inizio del 1991 qualcuno a malapena intuiva e che nell'82, alla morte di Leonid Breznev, appariva addirittura impensabile: una delle due «superpotenze» del mondo bipolare della guerra fredda, lo Stato più totalitario e centralizzato nella storia dell'umanità, rinunciando a una parte cospicua dei territori annessi dal 1939, si è disgregato in più Stati sovrani, uniti fra loro solo da un filo che rischia continuamente di rompersi. Al posto della bandiera rossa con la falce e il martello, sventola sul Cremlino il tricolore della Russia. È, questa, l'ora delle cronache e degli sguardi retrospettivi: ma l'evento offre materia sufficiente anche per una riflessione che vada oltre la cronaca e tenti di definire il carattere di un'epoca. Senza però dimenticare che nell'agosto del 1991 la situazione era altra e ben più inquietante.

Citazioni modifica

  • Il rapporto con gli slavi ha rappresentato sempre un problema spinoso per la civiltà romano-germanica, e più tardi per l'Europa, ma in modo particolare per i tedeschi. Nel movimento di colonizzazione verso l'Est, l'Occidente medievale compì molte aggressioni e violenze contro il mondo slavo, con il quale tuttavia intrattenne anche relazioni amichevoli. Ancor prima che gli Hohenzollern e gli Asburgo si annettessero, in concorso con la Russia, una larga fetta della Polonia, la politica prussiana come quella austriaca giudicavano il rapporto con gli slavi di importanza determinante. La storia interna della Prussia e dell'Austria-Ungheria, dai «grandi principi elettori» ai loro seguaci, da Maria Teresa a Francesco Ferdinando, si potrebbe scrivere semplicemente seguendo la linea politica tenuta da questi Paesi nei confronti dei polacchi e dei croati. (p. 50)
  • [...] vedere Hitler nei panni di conquistatore occidentale dello «spazio vitale» nell'Est slavo, fiero della propria civiltà e nutrito di «teorie» biologiche, è vedere solo un aspetto della sua complessa natura. Egli non era l'unico a essere convinto non solo dell'arretratezza e della inferiorità degli slavi, ma anche della loro pericolosità, a guardarli con disprezzo, ma anche con preoccupazione [...]. (p. 54)
  • Alfred Rosenberg, nel Mito del XX secolo, definisce le masse slave «creta» nelle mani dei loro padroni fin dal tempo in cui essi chiamarono in aiuto i vichinghi e si asservirono poi al potere dei principi tedeschi e ai nobili del Baltico; e ora, dopo la rivoluzione, si trovano nelle mani di «tiranni ebrei o mongoli»[4]. (p. 54)

I nuovi giacobinismi: da Robespierre a Bin Laden modifica

  • I giacobini erano assolutamente convinti delle loro ragioni e della loro missione: la Convenzione nazionale promise sostegno armato a tutti i popoli che si sarebbero sollevati contro i loro despoti.
  • La tradizione del primo giacobinismo, che diede il nome al movimento, trovò in tutto il Diciannovesimo secolo – che fu prevalentemente pacifico e non-rivoluzionario – la sua prosecuzione più visibile nel «movimento dei lavoratori» e, all'interno di questo, nel «marxismo».
  • I molti volgari antisemitismi presenti nei primi discorsi di Hitler hanno sviato l'attenzione della maggior parte degli storici dal fatto che egli, in tutti i passi essenziali, ha assimilato «ebrei» a «marxisti» e a «bolscevichi», che cioè il suo antisemitismo non può essere separato dal suo antimarxismo e antibolscevismo.
  • Hitler è dunque definibile come il più giacobino di tutti gli antigiacobini.
  • L'islamismo va considerato come il giacobinismo del Ventunesimo secolo e che all'infuori di esso non si vede oggi nessun fenomeno che abbia, verosimilmente, una simile portata storico-planetaria.
  • Ma dai tempi di Maometto l'Islam fu una religione missionaria e conquistatrice, che mescolava l'ambito religioso con quello politico, che disprezzava i confini nazionali ed etnici, una religione la cui semplicità e assenza di misteri anticipava già quell'«unità dell'umanità» che l'Islam voleva instaurare con un'ostinata lotta.

I tre volti del fascismo modifica

Incipit modifica

Che un fenomeno storico possa essere compreso soltanto in rapporto alla sua epoca costituisce una verità anche troppo evidente. Che cosa però sia quest'epoca e come sia inserito in essa il fenomeno particolare – semplicemente da essa determinato, oppure di essa caratteristico, o ancora determinantela – è, per lo più un problema assai dibattuto, cui di rado si son date tante e così contraddittorie risposte come nel caso del fascismo.
Due anni dopo la marcia su Roma, apparve uno scritto tedesco che prometteva di trattare l'«episodio fascistico in Italia». Quale un intermezzo, in un paese dove lo spirito dei tempi non aveva una posizione sicura: tale il fascismo sarebbe apparso, ancora per alcuni anni, agli occhi di buona parte dell'intellighenzia politica europea.

Citazioni modifica

  • Se [Hitler] avesse guardato per un momento a Ernst Röhm, a questo rappresentante della nuova generazione di ufficiali, così vicino a lui e tuttavia molto lontano sotto certi aspetti, avrebbe potuto trarne istruttive conseguenze. Anche Röhm era l'entusiasta erede borghese di tradizioni feudali e monarchiche, e anche per lui la guerra era un dono divino, «fonte di giovinezza, speranza e adempimento insieme»;[5] ma ben più fosca era in lui l'esasperazione seguita alla guerra perché, giunto alla stazione centrale di Monaco, aveva dovuto togliersi la veneranda coccarda con le sue mani e prestare giuramento di fedeltà alla repubblica. (p. 459)
  • [Ernst Röhm] Dal 1919 al 1923 egli non fu affatto un subalterno di Hitler ma – stando a opinioni degne di attendibilità – fu colui che «fece» il movimento nazionalsocialista, o per lo meno fu il suo «generale d'armata».[6] All'inizio del 1934 Röhm, capo di Stato Maggiore delle SA e ministro del Reich, fu l'unico tra i più vecchi combattenti del movimento vicini a Hitler a cui questi, divenuto cancelliere del Reich, degnò di dare fraternamente del tu; [...]. (p. 460)
  • Assai più duraturo e meditato[7] era il socialismo di Otto Strasser. Indubbiamente Marx avrebbe considerato anche lui come un esponente del socialismo piccolo borghese: nel suo più noto scritto programmatico egli parla infatti di Camera delle categorie e delle corporazioni, dei feudi ereditari e della ri-ruralizzazione della Germania. Strasser pone l'esigenza dell'autarchia e della valuta interna, della guerra rivoluzionaria contro il trattato di Versaglia[8], di una nobiltà guerriera. Ma pone un accento che non è soltanto demagogico sulle esigenze di spartizione della grande proprietà agraria, di partecipazione agli utili, di uno Stato popolare di democrazia germanica. Si tratta nel complesso di un programma genuinamente socialista, almeno nel senso che è pervaso dal vivo desiderio dell'estensione e della realizzazione della libertà. (p. 473)
  • [...], Hitler contrappose con la massima brutalità al nazionalsocialismo propugnato da Strasser la sua teoria del dispotismo della razza greco-nordica, teoria che considerava nazionale e socialista ad un tempo. Poco dopo Otto Strasser uscì dal partito e fece uscire il suo giornale con lo slogan «I socialisti lasciano il partito». Non si trattava nella realtà dei fatti di un evento importante, ma esso segnò comunque un punto ideale di considerevole significato. Da allora in poi esistettero infatti anche «antifascisti» di destra, mentre anche il più diffidente capitalista non aveva più ragione di ritenere l'NSDAP[9] un partito di sinistra. (pp. 473-474)

Note modifica

  1. Da L'eredità del nazionalsocialismo: immigrazione di massa – guerre balcaniche – islamismo [traduttore non indicato], Di Renzo, Roma, 20032, pp. 74-75. ISBN 888323054-X
  2. Joseph Goebbels, Der Nazi-Sozi. Fragen und Antworten fur den Nationalsozialisten, München 1929, p. 8. [N.d.A.]
  3. Walter Laqueur, Stalin Abrechunung im Zeichen von Glasnost (Stalin. Resa dei conti nel segno della Glasnost), München 1990, p. 306. [N.d.A.]
  4. A. Rosenberg, Der Mythus der 20. Jahrhundert, Monaco 1941, p. 113. [N.d.A.]
  5. Ernst Röhm, Die Geschichte eines Hochverräters, 5ª ed., Monaco, 1934, p. 9. [N.d.A.]
  6. Röhm, op. cit., p. 204. [N.d.A.]
  7. Rispetto a quello del giovane Goebbels.
  8. Il trattato di Versailles del 1919.
  9. Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori).

Bibliografia modifica

  • Ernst Nolte, Controversie (Streitpunkte), traduzione di Francesco Coppellotti, Corbaccio Milano, 1999. ISBN 88-7972-290-5
  • Ernst Nolte, Dopo il comunismo (Lehrstück oder Tragödie?), traduzione di Paola Sorge, Sansoni Editore, Firenze, 1992. ISBN 88-383-1191-9
  • Ernst Nolte, I nuovi giacobinismi: da Robespierre a Bin Laden, traduzione dal tedesco di Renato Cristin, Fondazione liberal, dicembre 2002.
  • Ernst Nolte, I tre volti del fascismo, traduzione di Francesco Saba Sardi e Giacomo Manzoni, Gli Oscar, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1974.

Altri progetti modifica