Enrico Thovez

critico letterario e poeta italiano

Enrico Thovez (1869 – 1925), critico letterario e poeta italiano.

Enrico Thovez

Artisti contemporanei: Antonio Fontanesi modifica

  • La prima fondamentale qualità del Fontanesi fu quella di possedere un'anima di poeta, e di poeta profondo, austero ed appassionato. Come per altri i la figura umana, per lui la forma della sua sensibilità fu l'esaltazione della poesia della natura per se stessa, e della natura più bella, più intatta, più armonica. E non in qualunque istante della sua esistenza, ma nelle sue ore più intime, alate, profonde, quando l'aria e la luce, i colori e le forme concorrono ad una suggestione piena di mistero e suscitano uno struggimento quasi amoroso. (p. 13)
  • L'opera [di Antonio Fontanesi] fu per lui sempre l'espressione di un bisogno di poesia, mentre per la quasi unanimità degli artisti non è che la manifestazione di felici attitudini meccaniche native o acquisite. Né egli ne fu, come altri, incosciente: ne era così conscio che la sua frase preferita era quella ben nota: il motivo lo portiamo nel cuore; frase stupenda, ma che inutilmente si ripete a chi anche con la massima buona volontà non potrebbe seguirla.
    Un poeta dunque, prima di tutto, un poeta entusiasta del detto di Leonardo: la pittura è una poesia che si vede, un grande poeta per cui la pittura non fu che l'espressione di un sentimento tumultuoso di entusiasmo, e la tecnica il mezzo, non mai lo scopo. (pp. 13-14)
  • Verrà l'ora di mostrare al pubblico non più solo qualche quadro [di Antonio Fontanesi], ma i disegni e i fusains, le acqueforti e gli studi ad olio, ed allora più di un critico, e più di un pittore si domanderà quale artista è stato più moderno e più audace.
    Cieli velati d'aprile, biondi pomeriggi d'autunno, stagni torpenti nell'ombra crepuscolare, bagliori d'incendio di tramonti fiammanti, confuse masse di verde, pianure scintillanti, soli radiosi fra le brume, profili evanescenti d'alberi sulla tenerezza rosea del cielo, lontane colline cilestrine; in qual meraviglioso paese ci trasporta questo evocatore! Grazie a lui l'arte è veramente non più una vanità personale dell'artista ma un'iniziazione a un senso delle bellezze più recondite. La sua potenza trascende i comuni mezzi di rappresentazione, giunge a espressioni quasi musicali. (pp. 21-22)

Artisti contemporanei: Constantin Meunier modifica

  • Tardi, ma in tempo, la plastica ha trovato il suo redentore. Il Millet della scoltura è Constantin Meunier.
    I futuri storici dell'arte spiegheranno scientificamente come mai l'interprete della poesia dell'industria moderna sia nato nel Belgio. L'influenza dell'ambiente sarà tirata in ballo e lo sviluppo industriale del Belgio ne farà le spese.
    Illusioni! Centinaia di scultori avevano visto i minatori all'opera nelle miniere, i pescatori sulla riva del mare, i falciatori nei prati, e non ne avevano saputo fermare il carattere, con quella limpida visione moderna che dà all'opera del Meunier il valore di un apostolato e il senso di una rivoluzione. L'influenza dell'ambiente è nulla se manca il temperamento. Ed il Meunier deve, come qualunque altro grande artista, il segreto della sua forza al suo temperamento, ad una sana, forte, limpida visione del vero non ottenebrata dall'insegnamento scolastico, al suo odio per le ipocrisie accademiche, alla sua simpatia ardente per la realtà, ma sopratutto al suo senso della poesia del mondo moderno. (p. 164)
  • Il Meunier è stato fra i primi, forse il primo, a vedere come nello sviluppo industriale odierno non tutto fosse distruzione di bellezza naturale e disarmonia patologica di forme. E stato dei primi a comprenderlo e ad esprimerlo con quella complessività di visione ed esclusivismo di tendenza che soli possono rendere un'opera convinta e duratura. Mentre i suoi colleghi si indugiavano all'impresa disperata di far rivivere i fauni e le ninfe, mentre, peggio ancora, vestivano di forme accademiche, fredde allegorie plastiche senza nucleo vitale, il Meunier si mescolò alla rude vita affaccendata dei minatori e dei meccanici, nel turbinoso vortice del Pays Noir, la triste regione vigilata dalle colonne dei camini fumanti instancabilmente contro il cielo tragico e spento, nell'aria grassa e spessa di polvere di carbone. (p. 166)
  • Le sue tempere sono nere come il paese fumoso che ritraggono: ma se esse danno la suggestione grandiosamente poetica del torbido territorio che illustrano, sono troppo frettolose di disegno e deboli di tecnica pittorica per raggiungere una propria bellezza estetica. Il colore sporco applicato a tratti e a puntini, ma non puro come nei divisionisti, anzi molto nero, rende assai ripulsive le sue pitture. Molto migliori sono i suoi schizzi dal vero, a matita, franchi ed espressivi. (p. 166)
  • In che cosa consiste la superiorità dell'arte del Meunier sull'insieme dell'odierna statuaria europea? Essa è prima di tutto espressiva; è in secondo luogo tipica.
    In ogni età dell'arte l'intensità dell'espressione è stata aumentata avvicinando l'arte allo studio della realtà, e le ragioni ne sono ovvie. L'arte del Meunier fu dunque nelle sue basi un realismo; la realtà fu per lui come per Hunt, per Millais, per Millet, per Bastien Lepage l'ispiratrice diretta. E, come avvenne a tutti i reazionari contro l'accademismo, nel suo bisogno di sincerità umana egli discese ai gradi più bassi della scala, dove l'impulso naturale è più vivace e spontaneo, dove le fisionomie e gli atti non sono ancora stati falsati e resi insipidi dalle inibizioni dell'etichetta e della moda, discese agli operai, ai minatori, ai contadini. (pp. 168-169)

Il filo d'Arianna modifica

  • V'è in Italia un nuovo dogma: il dogma di una nuova immacolata concezione; e l'immacolata concezione è l'Estetica di Benedetto Croce. (Il dogma crociano, p. 25)
  • La storia del pensiero umano ci dice quanto sia difficile la teorica dei fatti umani: psicologici, artistici, politici, economici, sociali. Ogni teoria è cacciata dalla successiva; e quello che pareva un sole di verità agli uni, si rivela agli altri un lumicino che si spegne con un soffio. Immutati restano soltanto i fatti, e non è mai di troppo scrutarli insaziabilmente prima di accingersi a costruirvi sopra il ragionamento astratto, perché può accadere che crolli per mancanza di solide fondamenta. (Il dogma crociano, p. 26)
  • Il Patrizi si è vôlto alle arti figurative, e principalmente ai pittori, ed in una serie di saggi studia la sensazione auditiva nei pittori, la sensibilità tattile e muscolare. le sensazioni del gusto, dell'olfatto, il tono interiore allegro o malinconico dell'artista, l'influenza delle anomalie dell'occhio fisiologico nella visione della forma e del colore, il senso del moto e dell'azione, l'emotività e i sentimenti.
    Basta enunciare il titolo di questi capitoli per mettere in luce la parzialità di questa analisi, perché accanto a questi elementi fisici e psicologici si riflettono nell'opera d'arte infiniti altri elementi di enorme importanza, quali per esempio l'educazione, la scuola, l'imitazione, la moda, il clima storico. (Il problema del genio, p. 45)
  • Egli [il Patrizi] vede, per esempio, che nei quadri del Fontanesi, le foglie sono immobili, i tronchi non si torcono al vento, le acque tacciono, e ne trae la conseguenza che nel Fontanesi era scarsa la facoltà auditiva, che sarebbe invece profonda in Salvator Rosa, il quale dipinse scene di natura agitata. Ma se il Patrizi avesse saputo che il Fontanesi aveva cominciato a dipingere a Reggio scene di natura sconvolta, nello stile di Salvator Rosa, e a Ginevra scene di romanticismo alpestre in quello del Calame, avrebbe probabilmente capito che quella natura apparentemente morta non era che il riflesso della nuova tendenza paesistica che cercava una natura riposata per reazione alla natura teatrale ed ossianesca dei predecessori. (Il problema del genio, pp. 47-48)
  • Mezzo secolo di esperienza ha dimostrato ad usura l'infecondità della formola wagneriana, se anche troppi autori musicali italiani trovino più comodo far orecchio da mercante. Non si cammina sulle orme di un Wagner più che non si cammini su quelle di un Dante o di un Michelangelo. Cioè non ci possono saltellar dentro che le scimmie. La fecondità del genio ha questa prerogativa: di rendere sterili le proprie formole, per la semplice ragione che ne ha recato all'estremo limite le interne energie di svolgimento. (L'eredità di Bayreuth, pp. 98-99)
  • [...] la ragione determinante di ogni quadro di Vermeer è sempre un effetto di luce laterale. Una finestra di fianco, di cui appena si vede il telaio e la vetrata, e talora, invisibile, un fondo di muro chiaro, una o due figure colpite dalla luce radente, che si profilano su di esso, qualche sedia, un tavolo, tappeti e tende; con questi elementi, appena variati, egli ha composto i suoi capolavori. (Vermeer van Delft e il senso cosmico, pp. 125-126)
  • [Vermeer] [...] la sua grandezza maggiore è nel colore. Anzi, non nel colore, ma nella luce. (Vermeer van Delft e il senso cosmico, p. 127)
  • [Vermeer] Il vero protagonista dei suoi quadri non è la figura: è la luce. È essa che vivifica le scene col suo velo impalpabile, che sfiora i muri, desta scintillii nelle stoffe, sfuma le forme; è essa che sottomette tutto alla sua unità. Ma questa luce non è una creazione fantastica; non è il fulgore fantasmagorico di un Rembrandt; è semplicemente la luce della realtà. Soltanto essa è osservata come pochissimi, e forse nessuno, seppe osservarla ed è resa con una sapienza tecnica che forse nessuno ebbe. Vermeer non ha infuso nelle luci e nelle ombre qualchecosa di suo; per l'estrema delicatezza dell'occhio e la profonda osservazione ha visto semplicemente quello che c'è, ma che i più non vedono, o per meglio dire, di cui vedono gli effetti senza capirne le cause. Ha visto i riflessi di luce nelle ombre, ha visto le mezze tinte nella luce che gli altri non vedono. Forse mai l'analisi geniale della luce è stata spinta più oltre. E ha reso pittoricamente questa osservazione acutissima con una tecnica geniale tutta sua, in cui sono precorsi ardimenti moderni, ma con una misura ed armonia di mezzi che nessun moderno ha più avuto. (Vermeer van Delft e il senso cosmico, p. 128)
  • [Vermeer] Il frutto più alto di quest'arte meravigliosa è per me «La collana di perle» del Museo di Berlino: è il quadro che riassume nella sintesi più semplice la visione artistica di Vermeer in quanto è tema, effetto di luce, chiaroscuro, colore e tecnica. Una donna che fa toeletta si prova una collana di perle, in piedi dinanzi allo specchio appeso alla finestra. La finestra si vede appena di scorcio; una striscia di tenda gialla, un lembo di tavolo coperto da un tappeto in ombra, due sedie, e la figura femminile che si profila sul muro bianco, nudo, senza pur un quadro. La donna, che indossa un giubbone di seta di un giallo citrino, è bruttina, come quasi tutte le donne olandesi dell'arte. Nessun fascino di femminilità, nessuna poesia di sentimento; un episodio umile di vita domestica; eppure l'impressione è indimenticabile; il Museo di Berlino è una raccolta di capolavori, ma da quei due palmi di tela emana una emozione pittorica che non è simile ad alcun'altra. (Vermeer van Delft e il senso cosmico, pp. 129-130)
  • [...] vien da chiedersi se questo spagnuolo [Jusepe de Ribera] fatto italiano (del quale è vezzo oggi parlare con qualche noncuranza forse non per altro che perché è colui che ebbe finora maggior fama) non sia per avventura il più grande fra gli eredi del Caravaggio; né pare che fosse poi così cieca la critica dei secoli scorsi che fra tutti lo scelse a rappresentare quella scuola. (Il Seicento italiano, p. 267)
  • È un peccato che il prof. Mariano Patrizi, tenace assertore di una critica d'arte fondata sull'esame dei caratteri somatici e psichici degli autori, invece di indagare i caratteri della delinquenza nella pittura del Caravaggio[1], non prenda in esame queste pitture: scoprirebbe nel pittore un intero trattato di patologia, ma, forse, sarebbe una illusione, perché questa gente è capace, fra sei mesi di dipingere in modo opposto. (I mostri, p. 323)

Il vangelo della pittura modifica

  • Augusto Rodin non è un genio: i geni sono rari nella razza francese: ma è un grande ingegno, e come tale è universalmente riconosciuto: ma in Francia si è formata attorno a lui una specie di guardia del corpo di critici, di letterati, di artisti che guardano a lui come ad un Messia. Ed egli, che pur è un uomo serio, alieno dalle vanità ufficiali, evangelizza volentieri, e certo non si può negare che non gli faccia difetto il physique du rôle: quella sua massiccia persona, la gran barba mosaica, l'alta fronte eretta, la parola tarda e solenne conferiscono alla sua eloquenza una dignità pontificale. (p. 109)
  • Rodin è un meraviglioso interprete della vitalità umana: il suo modo di studiare ci spiega in parte il segreto di questa sua potenza. Egli ha cercato di creare attorno a sé quella visione di nudità libera ed animata in cui si educarono gli occhi degli insuperati greci: nel suo studio i modelli non posano in attitudini preordinate: egli ne fa passeggiare parecchi, uomini e donne, attorno a sé con la libertà della vita, e abbozza febbrilmente in piccole statuette le attitudini felicemente casuali. (p. 110)
  • Fra gli spettacoli ammanniti dalla sollecitudine moderna alla nostra sete di godimenti estetici, non ne conosco nessuno che possa competere, per efficacia deprimente sulle facoltà intellettuali ed affettive di un individuo, con una esposizione di quadri e di statue. (p. 129)
  • [...] quando ad Oxford, a Liverpool, a Manchester, a Birmingham mi trovai di fronte ad Holman Hunt, dovetti dire a me stesso che l'insuperabile era stato superato; che nessuno, né antico né moderno, non Van Eyck, non Holbein, non Brown, non Millais era disceso così a fondo nelle fibre della realtà, l'aveva amata con più indefettibile entusiasmo, l'aveva resa con più straordinario sforzo. (pp. 230-231)
  • La pittura che per Rossetti fu suggestione di poesia, che per Millais fu prodigio di tecnica, che per Madox Brown fu arte nel suo significato più completo, per Holman Hunt fu qualche cosa di più: fu religione. (p. 231
  • Se dinanzi a tanti autorevoli entusiasmi [per i quadri di Renoir] non è da ingenui dire la verità, bisogna dire che nella massima parte di queste opere non c'è né forma, né colore, né ambiente, né luce, né riflessi: non è l'insufficienza e la stravaganza di certa genialità squilibrata, è semplicemente, come per Cézanne, incapacità tecnica ingenuamente confessata. Lo so, in questa pittura non ci sono neri: non bisogna esagerare questo merito. Se ad una qualsiasi signorina che dipinge con scarse doti native e senza aver ricevuto lezioni, si dicesse: non preoccupatevi né dell'argomento, né dell'espressione, né della forma, né dell'esecuzione, né della natura degli oggetti, né della prospettiva: togliete soltanto il nero dalla tavolozza: ne sorgerebbero facilmente dei Renoir a dozzine. (pp. 252-253)
  • La critica di trent'anni sono sarebbe singolarmente imbarazzata se si trovasse di fronte alle opere di un pittore come Ignazio Zuloaga. Eppure lo Zuloaga ha avuto, dopo le prime sconfitte, clamorosi trionfi: critica e pubblico non hanno oramai per lui che altissime lodi.
    L'opera dello Zuloaga è in fatti in contrasto con tutti i dettami del realismo razionale di trent'anni sono. Niente atmosfera avvolgente: i visi sono nitidamente segnati da un contorno che talora è addirittura una linea nera; i colori non sono sottomessi al gioco dei riflessi: talora sono come tinte piatte campite; non c'è realtà di luce: le figure si staccano chiare su fondi di cielo, bassi di tono come una tenda scura: siamo cioè in piena irrealità d'ambiente. (pp. 257-258)
  • Secondo il direttore della Galleria di Palazzo Pesaro, Gaetano Previati sarebbe il primo pittore del misticismo moderno, ne sarebbe anzi il massimo maestro; sarebbe un genio, verosimilmente l'unico genio della pittura italiana moderna. (p. 276)
  • Pubblico, critica e colleghi, pur ammettendo la nobiltà delle intenzioni del Previati e l'afflato di poesia delle sue pitture, erano urtati da gravi scorrezioni di disegno, da toraci che sembravano vesciche, da braccia che avevano apparenza di salsicciotti, da mani che parevano artigli. I non benevoli si inalberavano, i benevoli (e meglio degli altri coloro che conoscevano dai banchi di scuola le scarse facoltà meccaniche del Previati, la sua incapacità a padroneggiare la forma), domandavano perdono di quel fatale peso morto d'insufficenza costruttiva, in grazia del sovrano spirito di poesia che, lottando duramente contro le proprie deficenze, egli era riuscito ad esprimere, sia pure imperfettamente e attraverso gravi lacune ed errori. (pp. 278-279)

Incipit di Il pastore, il gregge e la zampogna modifica

Quando sul limitare della fanciullezza il fantasma ridente della Poesia uscì dai veli dell'incomposto tumulto dell'essere che si affacciava bramoso alla vita, inconscio ancora della natura del proprio ardore e dei mezzi di estrinsecare la piena irrompente dell'affetto e della meraviglia, novità grandi e misteriose erano avvenute nella repubblica letteraria italiana. Gli antichi dèi erano stati sbandeggiati ed i nuovi non avevano ancora ottenuto l'exequatur dalle autorità costituite.

Citazioni su Enrico Thovez modifica

  • Enrico Thovez passa per essere critico. Ma probabilmente egli non è fiero d'una fama venuta tardi, e proprio con l'appellativo, che aveva preso a odiare, quando, ancora giovanissimo, gli avevano stroncato quel Poema dell'adolescenza, ch'egli sperava dovesse iniziare tutta una sua serie di opere poetiche, anzi tutto un nuovo periodo della lirica italiana. Senonché pochi conoscono questo poema, mentre tutti hanno letto il Pastore, il gregge e la zampogna (1909), e i numerosi articoli di Simplicissimus, raccolti in Mimi dei moderni. E d'altra parte l'atteggiamento spirituale di questo singolare scrittore è appunto critico, nulla o ben poco salvandosi dalla sua mordace ironia, dal suo attacco aperto e violento. (Luigi Tonelli)

Note modifica

  1. M.L. Patrizi, Un pittore criminale. Michelangelo da Caravaggio, 1569-1609. Critica e biografia psicologica, [s.n], [s.d].

Bibliografia modifica

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